Già mesi prima della sua uscita, Mine vaganti, l’ultimo film del regista italiano di origine turca Ferzan Ozpetek, ha fatto parlare di sé, soprattutto per la notizia che Riccardo Scamarcio, uno degli attori italiani dotati di maggiore sex appeal nonché idolo di tante ragazze (e di tanti gay), vi interpreta il ruolo di un omosessuale. Un fatto abbastanza inedito nello stagnante panorama del cinema italiano, dove gli attori di grido non sempre scelgono ruoli così delicati, soprattutto quando sono popolari come il trentenne attore pugliese (che raggiunse la notorietà con Tre metri sopra il cielo e vanta numerosi successi al suo attivo, come Mio fratello è figlio unico, Manuale d’amore o La freccia nera, quest’ultimo per la televisione). Scamarcio in più interviste ha affermato di essere stato lusingato dalla chiamata di Ozpetek, di cui stima molto il cinema.
Mine vaganti, presente alla Berlinale (ma non in concorso), è ambientato in Salento. Vincenzo Cantone (Ennio Fantastichini), malato di cuore, decide di affidare il suo pastificio ai figli. Per questo il figlio minore, Tommaso (Riccardo Scamarcio), rientra dopo tanto tempo a Lecce, deciso ad affermare le proprie scelte personali e a rivelare la propria omosessualità, anche a costo di scontrarsi con la famiglia. Questa è numerosa ed eccentrica: il fratello Antonio (Alessandro Preziosi), col quale Tommaso dovrà gestire il pastificio, la mamma Stefania (Lunetta Savino), succube delle convenzioni borghesi, la sorella Elena (Bianca Nappi), che ha paura di un destino da casalinga, la stravagante zia Luciana (Elena Sofia Ricci), la nonna (Ilaria Occhini), anticonformista e intrappolata nel ricordo di un amore giovanile impossibile. Inoltre c’è Alba (Nicole Grimaudo), la cui strada incrocia professionalmente quella dei Cantone.
In casa c’è molta attesa per il ritorno di Tommaso, che sarà segnato da sorprendenti rivelazioni e colpi di scena, che lo costringeranno a prolungare il suo soggiorno, mentre la famiglia finalmente dovrà affrontare di petto un soggetto tabù: l’omosessualità. Di questa intrigante storia, delle sue ragioni e dei suoi retroscena, abbiamo conversato con il regista.
Il tuo film è stato paragonato a quelli di Pietro Germi e quelli di Mario Monicelli. La cosa ti fa piacere?
Lo hanno detto in molti fra quelli che lo hanno visto. Mi fa molto piacere, Germi è uno dei maestri che preferisco. In effetti Mine vaganti è un film drammatico ma che fa anche ridere, anzi spesso si ride quando si vede sullo schermo uno che piange. Questo è il meccanismo: merito anche della musica allegra di Catalano, se la togli la scena diventa immediatamente drammatica. Tutto il film è così, sul filo del rasoio. Noi stessi ci siamo divertiti molto sul set. È il mio l’ottavo film, quello che mi piace di più. Mi sono sempre vergognato di dire cose così, ma stavolta lo penso proprio.
Anche stavolta al centro di un tuo film c’è una comunità, in questo caso la famiglia. Come funziona?
È la storia di due fratelli, tutti e due gay. A loro bisogna aggiungere anche Daniele Pecci gay (tanto che una persona mi ha detto: “Stai rovinando tutti i miti maschili del cinema italiano”…). Daniele è veramente scatenato, è bravissimo, non si capisce dove finisca la finzione e inizi la verità. Il suo personaggio è Andrea, un amico avvocato di Tommaso che arriva in un momento molto difficile, perché la famiglia è distrutta per l’omosessualità del figlio; il padre è molto omofobico, pensava che il figlio sarebbe stato quello che avrebbe seguito l’orma paterna, e ora è distrutto. Bene, in quel momento arrivano quattro frocioni da Roma, la famiglia non si accorge che sono gay, anzi insistono per ospitarli a casa. Insomma, succedono cose molto particolari, in un’atmosfera di odio e amore, drammatica e divertente nello stesso tempo, in cui i nodi vengono finalmente al pettine.
La realtà è che su un gay si può piangere e ridere molto, perché a ben vedere nella vita di un gay, nella scoperta della propria omosessualità, accadono cose grottesche, come l’uscire con una donna per confondere le acque o i genitori che sono ciechi e non capiscono quella che è una cosa chiarissima. Oppure quello che succedeva a me, di mio padre che sapeva tutto (avevo già girato Il bagno turco) e che ciò nonostante mi diceva sempre di lasciare le ragazze in pace, così come agli amici che portavo a casa diceva di non scopare con le donne turche. Cose che fanno tenerezza, ma fanno anche pensare…
Quindi non solo il protagonista, Tommaso, è gay ma anche suo fratello Antonio…
Sì, è buffo: i genitori non sanno niente e si sfogano proprio con lui. L’idea mi è venuta da una storia vera, accaduta a un mio amico. Qui Scamarcio confida al fratello di essere gay, ma Preziosi una sera dirà davanti a tante persone che è omosessuale; così spiazzerà tutti e metterà i bastoni fra le ruote al fratello, il quale ora si trova in una situazione spaventosa: vorrebbe tornarsene a Roma, ma c’è il padre ammalato di cuore che può morire da un momento all’altro… A tutto ciò bisogna aggiungere che Alba, la figlia del loro nuovo socio, si innamora di lui e questo lo scombussola non poco, perché un po’ è attratto da lei, poiché e gentile e strana, insomma ha le carte in regola per attirare chi è gay.
Tutta la famiglia è sconvolta dalla notizia, con la mamma che chiede a Marco, il fidanzato di Tommaso che è medico, se si può guarire dall’omosessualità e, saputo che non è una malattia ma è una “caratteristica”, gli chiede comunque se si può tornare indietro…
Per fortuna c’è la nonna, che difende gli omosessuali, trova orripilante il concetto di “normalità” e attacca il conformismo della famiglia, dicendo al nipote “devi sbagliare sempre per conto tuo, senza dare conto agli altri”. Di lei vediamo in un flashback la storia proibita, accaduta quando era giovane, con un cognato che non la voleva. Una storia lontana nel tempo che però alla fine del film si inserisce nella storia.
Scamarcio ha accettato il ruolo con difficoltà?
Senza problemi, è un attore intelligente e di sensibilità rara. Ha girato con naturalezza tutte le scene, come quella in cui bacia Marco (Carmine Recano) e i due stanno nudi a letto, abbracciati. Secondo me è una scena bellissima, l’ho studiata a lungo.
Le scene di sesso sono allusive, non esplicite?
Sì, sono sempre dentro le righe. In compenso c’è una scena molto frizzante, sopra le righe, con Pecci che con gli amici balla nell’acqua sulle onde di Sorry I’m a Lady di Baccara.
Chi sono le “mine vaganti”?
Sono quelle persone, ne conosco tante, un po’ infantili nei loro comportamenti, che dicono delle cose e magari si comportano in maniera assolutamente opposta.
Come ambientazione hai scelto il Salento. Perché?
Lecce è una città splendida, la sua bellezza fa onore agli abitanti. Il Salento mi ricorda l’Italia degli anni Settanta nei suoi aspetti migliori e i salentini sono persone di straordinaria apertura mentale, non solo sull’omosessualità.
Ma la famiglia Cantone ha problemi con l’omosessualità…
La famiglia è verosimile perché ne esistono anche così, naturalmente. Con Ivan Cotroneo, che ha scritto la sceneggiatura con me, abbiamo indagato molto sulla realtà salentina. Mischiati però ci sono anche ricordi della mia famiglia, come il personaggio di Elena Sofia Ricci, che racchiude le mie due zie.
Sul Corriere della Sera, a proposito di questo film, Valerio Cappelli scrive che “la comunità gay non ti ama”. Secondo te è vero?
Non è che non mi ama, ma qualcosa di vero c’è perché molti rimangono indispettiti che nei miei film le cose si confondano. Io credo che non sappiamo mai chi potremo amare. Così molti non hanno apprezzato Stefano Accorsi che si sbaciucchia con Margherita Buy in Le fate ignoranti.
Però è vero che critico una parte della comunità omosessuale (per fortuna però è solo una parte). Critico quelli che non fanno altro che andare a saltellare in discoteca: pensano che sia quello essere gay o che avere diritti gay riguardi sempre il lato allegro delle cose; vivono senza pensare al sociale, alla vecchiaia, alla malattia, alla morte. Non hanno nessuna idea di questo, anzi votano a destra scegliendo chi li vorrebbe mettere al rogo… Per troppi l’importante è la crema per abbronzarsi o fare quattro muscoli, non c’è cultura gay in Italia. Purtroppo è così, siamo ridotti così.
Pensano che la discoteca sia la vera emancipazione; è il contrario, il giorno in cui non ci sarà una discoteca solo per i gay, sarà la cosa migliore. Io odio i ghetti, sarò felice il giorno in cui si andrà a battere in una discoteca “normale”.
Lo stesso gay pride mi fa pensare. Cosa dicono quelli che vi partecipano? Cosa pensano? Che maturità hanno? Hanno mai letto un libro sull’omosessualità? Cosa sanno dell’Hiv? Secondo me quelli che si informano e riflettono rappresentano una minoranza, perché a molti non gliene frega niente di niente.
Gli attacchi di chi diceva che sai fare solo film a tematica gay ti hanno convinto a girare film con altre tematiche?
No, non me ne è mai importato nulla, faccio sempre quello che mi va di fare. La verità è che non posso andare contro di me e le mie idee e nel cinema metto sempre tutto di me.
E comunque io faccio film non per i gay (che sono comunque i benvenuti) ma per gli etero che hanno amici o figli gay, così si avvicinano e capiscono.