È una forza della natura. Ha appena fatto urlare allo scandalo l’ambiente tradizionalista dei melomani, particolarmente diffidente nei confronti dei giovani registi, firmando la regia della Carmen che a dicembre ha inaugurato la Scala. Il teatro Valle di Roma le ha dedicato una retrospettiva che copre dieci anni di lavoro e al C.R.T. di Milano il pubblico ha accolto trionfalmente il suo ultimo lavoro, Le pulle, che affronta temi scottanti riguardo alla sessualità. Per questa energia Emma Dante, palermitana, autrice, regista e occasionalmente attrice, si dà una spiegazione: “La vita non è così lunga e duratura: io la voglio vivere intensamente. Domani potrebbe essere tardi, mentre in Sicilia è il contrario, si tende sempre a rimandare al giorno dopo, cosa che ho sempre cercato di combattere: è una malattia che si chiama indolenza e non la consiglio”. Sembra ieri – ma era il 1999 – quando Emma, già diplomatasi all’Accademia d’Arte Drammatica, fondava la compagnia Sud Costa Occidentale e l’anno seguente conquistava spettatori e critici con m’Palermu, sempre attualissimo anche dopo anni di repliche. Da allora è un succedersi di spettacoli e riconoscimenti che tuttavia non bastavano a farle assegnare uno spazio nella sua città dove lavorare, solo di recente finalmente acquisito. La ragione è che Emma è una donna scomoda, un’artista che non esita a prendere posizione in un ambiente spesso troppo acquiescente verso il potere che controlla i rubinetti delle sovvenzioni al teatro: lo ha fatto chiedendo di controllare i conti dello Stabile di Palermo. Anche con la chiesa i suoi rapporti sono burrascosi. Il cardinale Bertone, dopo aver sentito parlare della Scimia – senza aver visto lo spettacolo, tratto da un racconto di Tommaso Landolfi, in cui un bel giovanotto nudo interpreta il primate che, dopo aver sedotto due zitelle bigotte e un prete, finisce crocifisso – ha minacciato di scomunicarla. L’emarginazione, i conflitti familiari, l’handicap, la differenza sessuale sono temi che hanno sempre trovato voce nel suo lavoro: in Mishelle di Sant’Oliva un ragazzo si traveste e si vende per strada, sostituendosi alla madre prostituta che ha abbandonato lui e il padre. Carnezzeria affonda la lama nell’incesto tra fratelli e sorella, vittima sacrificale dell’omertà e dell’ipocrisia perbenista e l’ultima fatica, Le pulle (puttane in palermitano, prodotto dal Mercadante di Napoli e reduce da una lunga tournée in Francia dove la Dante è amatissima) apre uno spiraglio poetico sulla quotidianità di un gruppo di prostituti. Sono giovani che, soffocati da trucchi pesanti e oppressi dai tacchi a spillo, sognano di evadere, assecondati da fate dotate di enormi falli, e trovare l’amore, coronato magari da un tradizionale matrimonio in bianco – però l’abito è una guêpière – mentre le compagne-damigelle intonano “l’inno alla minchia”. Alla vigilia del debutto milanese, abbiamo il piacere di trascorrere un po’ di tempo con Emma e rivolgerle qualche domanda.
Chi sono queste “pulle”?
Sono quattro travestiti e una transessuale che conducono una vita misera ma sognano le fate. Si riducono a oggetti sessuali a disposizione dei clienti, al pari delle bambole gonfiabili con macroscopici attributi maschili. Le ho trovate ad Amsterdam dove insistevano perché scegliessi invece l’ultima novità sul mercato: le pecore gonfiabili, però non volevo strafare…
Che effetto fa aver scritto questa pièce ben prima che esplodesse il caso Marrazzo e gli italiani scoprissero – o facessero finta di scoprire – che esistono le transessuali e trovarle per mesi al centro del circo mediatico?
La storia è sicuramente venuta fuori in maniera violenta: l’Italia è un paese che comincia a farsi delle domande quando purtroppo arriva la tragedia. Senza quella non ci si mette con serenità a analizzare la società in cui viviamo. Se ci sono delle creature emarginate, non ce ne dobbiamo accorgere solo al momento del casino: in questo caso ci sono state delle morti e grande scompiglio a livello umano. Occupandomi del contemporaneo, il mio teatro va sempre nei posti che la gente non vuole vedere, quindi succede che, facendo una riflessione su un argomento ai margini, sul pregiudizio, sulla non comprensione, sui tabù, quello di cui io sto parlando coincide col presente. Non mi sorprende e mi fa capire che stiamo percorrendo la strada giusta. Comunque il mio non è uno spettacolo documentaristico, non parla dei problemi della prostituzione in Italia, ma vuole essere un accompagnamento di queste creature, definite dalla società “incompiute”, che invece sono compiute, dato che hanno consapevolezza sia dei loro desideri e sogni sia di quello che è la tragedia del quotidiano. Il mio è uno sguardo su di loro e un tentativo di aprire la finestra della loro piccola stanza e ascoltarle veramente.
Da donna prima e da cittadina poi, che tipo di sguardo ha nei confronti di queste persone?
Il mio sguardo vorrebbe essere sereno ma non lo è. Il teatro è per me un modo di curare l’atteggiamento pressappochista che spesso abbiamo della vita. Quando racconto di problematiche familiari, della non accettazione della diversità, della paura dell’altro, dentro di me c’è una grande sofferenza, perché anche io a volte faccio fatica, anche a causa della mia educazione cattolica, ad accettare veramente il diverso. La formazione che abbiamo non ci aiuta a espellere tutto ciò che è contro la libertà di giudizio, quindi il teatro mi serve per sanare la mala educazione che ho avuto nella vita. Il mio rapporto con queste creature, i personaggi dei miei spettacoli (che non sono solamente i trans ma anche i malati, i poveri e i brutti), consiste nel cercare non di compatirli o tollerarli ma di comprenderli. Non mi piace la parola tolleranza, perché è assai vicina all’ipocrisia: meglio accettazione, comprensione e solidarietà.
Le sue tematiche e l’ostracismo da parte delle autorità religiose sono molto vicini alla realtà del mondo glbt con cui dovrebbe aver maturato una forte sintonia: ha avuto riscontri a questo proposito da questa fetta di pubblico?
Premetto che il mio non è mai un pubblico generalista: non tutti vengono a vedere i miei spettacoli, perché si sa che allo spettatore viene chiesto di condividere un’esperienza con l’attore che lo fa e con me che lo guido verso un obiettivo. Quindi non è un teatro per le masse, ma non mi viene naturale fare distinzione tra pubblico eterosessuale e gay: quello che mi segue è un pubblico autoselezionato e preparato. Nel mio lavoro parlo spesso di oppressione, qualcosa che opprime e impedisce all’individuo di essere libero. Questo emerge anche in spettacoli che non parlano esplicitamente di tabù legati all’omosessualità che purtroppo in Italia sono ancora tanti e forti. Non ci siamo liberati della censura sulle questioni omosessuali, non facciamo finta che non ci sia: da questo punto di vista non è vero che siamo un paese libero. Io però parlo anche di altri tipi di prigionia: la famiglia, l’incesto, la pedofilia, la povertà, tutte categorie allontanate dalla società e questi temi attraggono le persone che vivono un disagio, non solo i gay che avrebbero diritto al matrimonio e a una vita simile a quella di tutti gli altri, ma attraggono anche un pubblico con altri tipi di mancanze.
A proposito di mancanze, ce ne sarebbe qualcuna da ascrivere alla comunità glbt?
Grazie al cielo, la sua voce si è fatta sentire e ha fatto la differenza nella storia: come per il movimento femminista, i traguardi raggiunti sembrano piccoli ma in realtà non lo sono affatto. Certo, gli omosessuali la voce potrebbero alzarla ancora di più, perché la presenza della chiesa nel nostro paese è veramente depistante, cioè non aiuta a vedere con chiarezza le cose. Forse ci vorrebbe una presa di posizione un po’ più spinta. I tempi altrimenti rischiano di diventare eterni e i gay dovrebbero evitare di cadere nel contentino delle pari opportunità promesse alle donne.
Uno dei suoi spettacoli, Cani di bancata, ha affrontato il tema della mafia e anche questo è all’ordine del giorno in questi mesi. Perché è stato un po’ meno amato degli altri?
È stato ricevuto con freddezza soprattutto dalla critica, poi adesso che non gira più ne parlano come di un capolavoro. Forse le cose forti, incisive, è bene che ci siano ma non devono essere davanti ai nostri occhi. Che grande ipocrisia! Comunque anche i miei lavori successivi raccontano spesso l’atteggiamento mafioso e il tema non l’ho abbandonato: è nella mentalità mafiosa delle storie che racconto. I miei personaggi sono talvolta tremendi e feroci nel pensiero: sono siciliana, vivo a Palermo, conosco a fondo la realtà della strada e talvolta mi scontro con la mentalità spiazzante delle persone, quella che alimenta il “mostro” della mafia.
La sua prima regia alla Scala ha lasciato il segno e il sovrintendente Lissner la rivuole presto. Tra i melomani la componente gay ha percentuali “bulgare”: che segnali le ha mandato questo pubblico?
Ho avuto tanti messaggi di grande commozione e felicità e sono molto contenta del lavoro che ho fatto perché ha avuto un riscontro incredibile, nel bene e nel male. Mi sono arrivate anche minacce, tipo “sparisci da qui altrimenti finisce male…”, ma sapevo che i fan dell’opera non hanno mezze misure. Per la lirica la musica è l’anima che la prosa non ha.
A che progetto sta lavorando in questi mesi?
È la Trilogia degli occhiali che sarà pronta tra un anno. Si tratta di tre spettacoli autonomi che potranno esser rappresentati in una sola serata. Alla retrospettiva di Roma è stato presentato uno studio della prima parte, Acquasanta. La scelta del titolo si spiega col fatto che tutti i personaggi sono “cecati” e appartengono alle categorie degli emarginati come poveri, malati e vecchi. È un’indagine sulla non integrazione di queste persone che non riescono a trovare un posto nella società. L’altro progetto è il soggetto per un film, tratto dal mio romanzo Via Castellana Bandiera.
Comincio a scriverlo in questi giorni insieme allo scrittore Giorgio Vasta, palermitano fuggito a Torino. Non so dove mi porterà questa nuova avventura. Il regista? Ma ovviamente sono io!
Che cosa si augura per il nostro paese che sta attraversando un momento terribile con tutti i valori in caduta libera?
Mi auguro che nel coro si alzi una voce più forte, perché ora non c’è opposizione, nessuna voce sovversiva reale che possa rappresentarci. Vorrei che come in anni passati ci fosse più indignazione che invece mi sembra scemata, facendoci sentire come anestetizzati al male.