Milanese, classe 1973, Deborah Brizzi ha lasciato il servizio sulle volanti notturne della polizia meneghina da ormai dieci anni, approdando alla sezione giudiziaria. La sua esperienza di tutore dell’ordine nella metropoli marginale e violenta rivive però nel suo thriller Ancora Notte, uscito l’anno scorso per Rizzoli (468 pp., 17 euro): Norma Gigli, ardimentosa poliziotta delle volanti, dà la caccia al pericoloso serial killer Odino mentre attraversa una crisi profonda nella sua relazione con Giò.
Come Norma, anche la sua autrice è lesbica: nella finzione romanzesca Brizzi ha trasposto non solamente l’eccitazione e la paura di chi sulla strada rischia la vita tra violenti di ogni risma, ma anche la sfida quotidiana di essere donna in un ambiente prettamente maschile. Il racconto che fa del suo ruolo nelle forze dell’ordine come donna e come lesbica, però, mette in dubbio fin da subito il pregiudizio che vede nella polizia un’istituzione sessista e omofoba.
Come hai deciso di entrare a far parte della polizia?
Me lo sono chiesta anch’io, sai? Non ho – come spesso accade – precedenti famigliari dei quali ho sentito di voler seguire le orme, sono una poliziotta anomala. Forse sono semplicemente stata rovinata dalle Charlie’s Angels o forse il mio profondo senso di giustizia non ha trovato altra strada da percorrere.
Hai mai pensato che la tua omosessualità potesse essere in contrasto con il tuo lavoro?
Omosessualità? Non esistono omosessuali in polizia. Io lo sono solo fuori dal servizio. Scherzo, ovviamente. Comunque no, non l’ho mai pensato, ammesso che per “contrasto” tu intenda che il mio orientamento sessuale possa influire sul mio operato.
I tuoi colleghi sanno che sei lesbica? Ti sei mai imbattuta in episodi di omofobia all’interno del Corpo?
Il percorso di svelamento è stato lungo e faticoso, ma per ragioni meramente personali e non perché abbia mai sentito una particolare ostilità. Ho capito nel corso del tempo che l’unico ostacolo alla mia visibilità ero proprio io. Il che non vuol dire che in questo non abbia giocato un ruolo determinante l’ambiente circostante. Se per quarant’anni senti l’esigenza di nasconderti, ti senti sbagliata e avverti il timore di manifestarti, è evidente che questa paura è stata abilmente instillata da qualcuno o qualcosa, ma non ritengo che sia una questione di mestiere, quanto di oscura e inesorabile pressione sociale.
Ho parlato di me al lavoro poco prima che il mio libro uscisse e non è stato un coming out dettato dalla contingenza, è stata una necessità profonda, il bisogno di eliminare una dicotomia che si stava facendo sempre più dolorosa. In fondo si passa più tempo con i propri colleghi che con qualsiasi altra persona, e trascorrerlo fingendo di essere qualcun altro è profondamente destabilizzante. Loro sono stati meravigliosi, sono meravigliosi, dai miei parigrado fino ad arrivare al mio dirigente. Ho avuto una risposta di affetto e vicinanza commovente.
Ci sono disposizioni o regolamenti particolari, all’interno della polizia, a proposito dell’omosessualità dei suoi componenti?
No, nessun accenno all’interno del regolamento.
Puoi dirci se conosci o hai sentore di altri colleghi e colleghe poliziotti che invece, a differenza tua, vivono con disagio il proprio essere gay o lesbica, e quindi non ne parlano pubblicamente? Oppure di storie di colleghi gay che ti sono arrivate all’orecchio e che aspettano l’occasione giusta per uscire allo scoperto?
Non conosco nessuno che abbia fatto coming out o che si sia confidato con me; altra cosa è il “sentore”: come tu ben sai ognuno di noi ha un radar molto sensibile. Ecco, diciamo che il mio ha suonato spesso in questi anni.
Esiste un’associazione italiana di gay e lesbiche in divisa, Polis Aperta. La conosci? Hai mai pensato di farne parte?
La conosco e chi l’ha fondata ha tutta la mia stima. Non ne faccio parte perché quel genere di attivismo comporta un investimento enorme in termini di tempo e impegno. Per ora mi limito al tentativo di migliorare il piccolo pezzo di terra che abito: una sorta di politica del quotidiano.
Credi che rispetto ad altri paesi europei o agli Usa ci sia qualche margine di miglioramento riguardo al trattamento dei poliziotti LGBT? Anche per la loro rappresentanza, per esempio, nelle parate dei pride.
C’è sempre un margine di miglioramento possibile. Il mio parere di cittadina è che una legge contro l’omofobia avrebbe senz’altro effetti benefici anche all’interno dei luoghi di lavoro, poiché l’obbligatorietà della legge influisce lentamente anche sulle abitudini peggiori.
Per quanto riguarda la rappresentanza al pride temo sarà un percorso molto lungo, perché bisognerebbe cambiare la legge 121/81. Per farti capire riporto i primi due commi dell’art. 81: “Gli appartenenti alle forze di polizia debbono in ogni circostanza mantenersi al di fuori delle competizioni politiche e non possono assumere comportamenti che compromettano l’assoluta imparzialità delle loro funzioni. Agli appartenenti alle forze di polizia è fatto divieto di partecipare in uniforme, anche se fuori servizio, a riunioni e manifestazioni di partiti, associazioni e organizzazioni politiche o sindacali, salvo quanto disposto dall’articolo seguente. È fatto altresì divieto di svolgere propaganda a favore o contro partiti, associazioni, organizzazioni politiche o candidati ad elezioni.” È palese l’intento di mantenere la giusta imparzialità della funzione e capisci bene che è un terreno molto delicato su cui muoversi.
Pensi che le forze di polizia risentano dell’omofobia dilagante nel paese?
Insieme al calcio, quello dell’esercito e dei corpi di polizia sono gli ambienti tabù per eccellenza, quantomeno dal punto di vista gay maschile.
Per le lesbiche pensi che la situazione sia migliore?
Come in qualsiasi ambiente, ciò che differenzia i singoli è il quoziente intellettivo. Qualcuno diceva che esistono lo stesso quantitativo di persone intelligenti tra i fisici nucleari e gli spazzini, e io sono d’accordo. Se incontri una persona intelligente, al di là delle esperienze che l’hanno costruita socialmente, si trovano sempre punti di contatto, e questa è la mia esperienza personale. La diversità risiede forse nel fatto che le donne e gli uomini delle forze dell’ordine subiscono una sovraesposizione alla violenza che cambia le risposte che danno al mondo, il modo di filtrare la realtà con la quale entrano in contatto. Vivere nella violenza quotidiana e doverla affrontare ti sforma, ti indurisce. Ma facendo questo mestiere mi sono resa conto che i poliziotti subiscono un ostracismo preconcetto molto simile a quello che subiscono altre minoranze. Insomma, non mi sono fatta mancare niente.
In questo numero parliamo di un libro che raccoglie i documenti sui movimenti di protesta raccolti dal ministero degli Interni in varie epoche della storia repubblicana.
Parlando della repressione dei movimenti LGBT italiani e delle schedature degli omosessuali, che dovrebbero appartenere a barbari metodi del passato, secondo te l’atteggiamento della polizia è cambiato rispetto a questo tema? Ossia: è vero che i poliziotti che fanno servizio d’ordine durante i pride e i presidi del movimento LGBT sanno che non ci sarà bisogno di loro e che tutto si svolgerà in maniera pacifica? Oppure permane ancora il pregiudizio che chi manifesta è comunque vissuto come un pericoloso sovversivo?
Credo che, come spesso accade, si faccia un’enorme confusione tra chi legifera e chi è preposto a far sì che queste leggi vengano rispettate. Se durante il Fascismo, per assurdo, ci fosse stata una legge contro l’omofobia, i poliziotti di quei tempi ne avrebbero curato l’applicazione; invece successe esattamente il contrario, ovvero che gli omosessuali furono definiti elementi pericolosi e come tali furono trattati. Ma questo non lo decisero i poliziotti, bensì chi a quel tempo decideva cosa i poliziotti dovessero fare. Il tuo “sospetto” getta un’ombra terribile su un’istituzione che non ha più nulla a che vedere con quel periodo: la libertà con la quale io sto rispondendo a queste domande lo dimostra. Per quanto riguarda il servizio d’ordine al pride rispondo da cittadina e da partecipante perché non conosco personalmente tutti i poliziotti di Milano. Essendo del mestiere, però, posso dirti che tutti i colleghi che vedo impegnati in ordine pubblico durante i pride mi sembrano molto tranquilli, ben consapevoli di partecipare a una festa.
Il tuo orientamento sessuale ti ha aiutato o ti ha permesso di avere un atteggiamento più sensibile e solidale rispetto alle situazione problematiche che hai osservato durante le tue missioni notturne sulle volanti milanesi?
Non saprei rispondere: ho sempre tentato di entrare in contatto con le persone che avevo di fronte partendo dal loro presupposto, altrimenti la comunicazione è impossibile; non so se in questa tensione c’entri più il mio orientamento sessuale o l’indole.
Che tipo di Milano notturna “marginale” e violenta ti ha colpito maggiormente, durante quella esperienza? Quali aspetti credi siano insostenibili e quali, invece, ti fanno magari rimpiangere di non essere più su quelle volanti?
Ci sono diversi aspetti di Milano che mi hanno colpita, ma considera che non faccio volante da quasi dieci anni, sicché suppongo di aver perso un po’ il polso della città. Sicuramente la prostituzione in generale e quella transessuale nella fattispecie sono ambiti di grande violenza, di solitudine, degrado e abbandono. Le donne che si prostituiscono sono quasi tutte schiave a riscatto, sono soggetti sensibili perché subiscono violenza da chi le gestisce e sono esposte alla brutalità di una società che non le considera esseri umani ma oggetti. Vengono rapinate, picchiate e violentate ed è molto difficile proteggerle, sono quasi tutte irregolari e collaborare con le forze dell’ordine significa per loro rischiare la vita. Il mondo transessuale è diverso: loro si prostituiscono senza protettori ma non per questo corrono rischi minori. Subiscono gli stessi reati delle loro colleghe ma hanno una visibilità sociale ancora inferiore.
Puoi raccontare un aneddoto, magari un caso particolare che riguarda le persone LGBT incontrate durante le tue notti sulle volanti e che ti ha particolarmente colpito?
Durante un pattuglione, che sono servizi straordinari di prevenzione e controllo, accompagnammo in questura una transessuale napoletana; era bellissima e io le feci i complimenti dicendo che avrei dato la tredicesima per avere il suo fisico. Ci mettemmo a parlare e scoprii che era cresciuta a Napoli ed era vicina di casa di mio zio. Mi rincuorò molto sapere che, sin da piccola, lui l’aveva sempre trattata con grande rispetto e lei ne serbava un ottimo ricordo.
Lasciare il servizio sulle volanti in strada è stata una tua decisione, oppure è stata dettata da circostanze diverse?
Entrambe le cose: alle volanti facevo coppia con un caro amico che mi convinse a fare domanda per la sezione di polizia giudiziaria, io fui trasferita prima e lui tornò a lavorare nella sua città per stare vicino alla compagna che nel frattempo era rimasta incinta.
Condividi l’immagine della polizia che esce spesso dai romanzi polizieschi italiani? Ci sono aspetti che ti infastidiscono di più, di questa rappresentazione, anche magari rispetto al punto di vista LGBT?
Devo confessare che non ho una grande cultura di gialli: ho letto qualche libro di Lucarelli, trovo che sia molto bravo e che la rappresentazione che dà delle forze dell’ordine sia molto aderente alla realtà. Per il resto, se non posso parlare bene di qualcuno preferisco astenermi dal farlo. Detto questo, scrivere un romanzo non significa scrivere un saggio. L’autore o l’autrice hanno un margine ampio e per raccontare storie non è indispensabile documentarsi, se lo si fa è una scelta. I romanzi sono opere di fantasia, e come tali devono essere letti.
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