Domani andrà meglio

Morire ammazzati da uno psicopatico che sfoga sui gay le proprie frustrazioni non è un destino troppo improbabile in quasi tutte le parti del mondo. Ma può sembrare una maligna ironia della sorte che succeda nel centro di New York proprio nella giornata internazionale contro l’omofobia e a pochi passi da Christopher Street dove tutto cominciò quel famoso 28 giugno 1969. Mark Carson, un “favoloso uomo gay” di 32 anni, come l’ha definito una cara amica, la sera dello scorso 17 maggio è stato assassinato per la strada con un colpo di pistola in faccia da uno sconosciuto che non poteva sopportare che un finocchio rispondesse a tono alle sue offese. Da mezzo secolo New York è il centro simbolico della nostra battaglia per l’uguaglianza e in questi cinquant’anni di strada indubbiamente ne ha fatta. Dai raid della polizia corrotta nei locali frequentati da omosessuali e travestiti, che furono all’origine della rivolta di Stonewall, siamo passati al consolidamento di una forte comunità glbt e alla legalizzazione del matrimonio gay. Oggi la presidente del consiglio comunale, Christine Quinn, è una lesbica dichiarata e secondo i pronostici sarà il prossimo sindaco della città. È quindi naturale domandarsi sgomenti il perché di una morte che appare così stupida, come quella di chi ha perso la vita nell’ultimo giorno di guerra.
Il fatto è che la guerra non è finita e che neppure il suo esito è scontato. Una cultura di sopraffazione millenaria non si cancella in un giorno, tanto più se l’idea che le persone glbt siano esseri alieni, inferiori e pericolosi continua a essere protetta dalla garanzie attribuite alla libertà d’opinione e propagandata dalle religioni più diffuse. Oggi nei paesi democratici non è più culturalmente consentito, almeno ufficialmente, sostenere che le donne sono inferiori, ma non per questo le donne hanno cessato di subire ingiustizie e violenze. Figuriamoci gay, lesbiche e trans. La presa di parola e la rivendicazione di libertà dei soggetti tradizionalmente considerati deboli li espone alla reazione di chi è disposto a tutto pur di non cambiare l’ordine gerarchico prestabilito. Qui stiamo. Ed è dolorosamente significativo che a ricordarcelo non siano solo i casi efferati che si verificano ogni giorno nelle periferie dell’impero, ma qualcosa che accade nel suo centro. A New York, solo il mese scorso, si sono verificate numerose aggressioni omofobiche e già il giorno prima dell’assurda morte di Mark Carson c’era stata un’affollata manifestazione per rispondere all’escalation della violenza. Nella comunità glbt molti pensano che sarebbe ora di andare in giro armati per fare passare la voglia agli omofobi di attaccarci, ma questa non è un’opzione. Nessuna legge e nessuna forza, se non quella della ragione, potrà mai farci sentire al sicuro. Di martiri, purtroppo, ne avremo ancora molti comunque. La nostra scommessa storica è semplice, anche se capita di perderla di vista e cercare scorciatoie che ci rendono simili ai nostri nemici: una vita più libera per tutti, dove il potere di costringere sia sostituito da quello di convincere.
In questi mesi di passaggio tra la primavera e l’estate celebriamo le nostre ricorrenze, contiamo le nostre vittime e cerchiamo di guardare al futuro. In Italia avremo manifestazioni del pride in dieci città diverse, segno del fatto che malgrado le molte crisi che ci colpiscono le energie si rafforzano. lI tema dei diritti glbt, almeno a parole, è uscito dal ghetto e riguarda il tasso di civiltà del paese nel suo insieme. Ce l’hanno testimoniato anche i messaggi di solidarietà delle più alte cariche istituzionali in occasione della giornata mondiale contro l’omofobia. Ma com’è che tutti ci danno ragione e non cambia mai niente? Questo è il problema nazionale generale in questo momento, in cui la politica sembra incapace di indirizzare qualunque ipotesi costruttiva e si perpetua come arte del rimanere immobili. Si fanno tante chiacchiere e non si conclude niente (gli esempi in questo caso sono del tutto superflui).Non ne usciremo mai, se non sapremo risolvere il problema di una classe dirigente, non solo politica, che ha tradito da tempo la propria missione e si percepisce come ceto separato e votato a difendere le proprie rendite di posizione costi quel che costi. Le caste, e gli aggregati di potere fine a se stesso che rappresentano, sono oggi l’ostacolo preliminare a ogni possibilità di cambiare in meglio. Questo vale per tutto e anche per i diritti glbt. Suona dunque un po’ come uno schiaffo la notizia che a non molte settimane dall’inizio della nuova legislatura i deputati gay hanno ottenuto senza troppo combattere l’estensione dell’assistenza sanitaria speciale di cui godono ai loro partner conviventi. Apparentemente è un ottimo risultato, perché nelle scorse legislature non si era arrivati neppure a questo. Ma quella che dieci anni fa sarebbe potuta sembrare una vittoria simbolica con valenze più generali rischia oggi di essere solo un simbolo del privilegio intollerabile di chi ci rappresenta senza alcun vantaggio per noi. Fossi un deputato, farei obiezione di coscienza e direi che l’assistenza sanitaria per il mio compagno non la voglio finché tutte le coppie omosessuali del mio paese non avranno la stessa opportunità. Come Angelina Jolie e Brad Pitt che hanno annunciato di non volersi sposare fino a quando non avessero potuto farlo anche i loro amici gay. Ma loro senza dubbio sono molto più chic.