Non è un periodo facile per Rufus Wainwright, questo. Sua madre – la folksinger canadese Kate McGarrigle – è scomparsa pochi mesi fa dopo una lunga malattia, e Prima Donna, l’opera lirica da lui composta che ha debuttato a Londra lo scorso aprile, è stata stroncata quasi all’unanimità dalla critica. Non sorprendono più di tanto, quindi, le atmosfere notturne, rarefatte e quasi lugubri del suo nuovo album All Days Are Nights: Songs for Lulu, dedicato alla vamp del cinema muto Louise Brooks.
Il contrasto con i suoi dischi precedenti è evidente anche dal vivo: la recente data milanese del suo tour alla sala Verdi del Conservatorio era divisa in due parti. La prima, cupa e intensa, durante la quale lo stesso Rufus – che entra lentamente in scena incappucciato in una mantella nera con un lunghissimo strascico – prega il pubblico di non applaudire, è tutta dedicata alle canzoni dell‘ultimo cd, con il gigantesco occhio della copertina che dal fondale fissa la platea. La seconda parte, invece, è il Wainwright più pop: qui il cantante ripropone i suoi cavalli di battaglia al pianoforte e dialoga scherzoso tra un pezzo e l’altro con il pubblico, sollevato dopo tante note dolenti.
Il concerto di Milano si è concluso con la toccante interpretazione di un pezzo della madre, alla fine del quale non soltanto Rufus si è commosso. Un trionfo, con i fortunati in poltronissima in piedi ad applaudirlo.
Rufus Wainwright è un artista ormai famoso e apprezzato anche in Italia, soprattutto da quel pubblico che preferisce artisti di culto come Björk, i Radiohead o Antony & The Johnsons che non esitano a fare scelte fuori dalla norma e a pubblicare dischi poco commerciali. A soltanto 36 anni ha già all’attivo ben otto album e vinto numerosi premi.
Talento precoce, Rufus è doppiamente figlio d’arte: la madre Kate era la metà del pluripremiato duo folk femminile delle McGarrigle Sisters, e il padre Loudon III è un cantautore e attore che negli anni Settanta fu brevemente considerato “il nuovo Bob Dylan” dalla critica. Come la sorella Martha (anch’essa, prevedibilmente, cantautrice e interprete), Rufus inizia a esibirsi in pubblico fin da giovanissimo, accompagnando sul palco del circuito musicale di Montreal la madre, che nel frattempo aveva divorziato dall’eccentrico Loudon.
Esuberante e gay dichiarato fin dall’adolescenza (quando non esitava a cantare a squarciagola i pezzi di Blondie durante i tragitti in auto con il rassegnato papà), Rufus non ha mai nascosto la sua giovanile irrequietezza sessuale, né ai genitori né al pubblico: a quattordici anni viene violentato e rapinato a Hyde Park a Londra da un uomo appena conosciuto in un bar, e nei mesi successivi allo stupro vive nel terrore di aver contratto il virus Hiv.
Nel 1998 esce il suo omonimo primo album, e Rolling Stone lo incorona come “Best New Artist of the Year”. Al successo di critica però corrisponde un numero di copie vendute soltanto limitato, e il disco non scala le classifiche. Rufus si distingue fin dagli esordi per la voce potente ed espressiva, per la raffinatezza delle composizioni e la franchezza autobiografica dei testi, e soprattutto per la qualità delle esibizioni dal vivo.
Come tutti i componenti della sua estrosa famiglia, anche lui non pare preoccuparsi di mantenere separato il piano pubblico da quello privato, anzi: nelle interviste parla più che volentieri delle sue relazioni, della sua omosessualità e anche delle sue frequenti crisi. Tanto che qualche maligno sostiene che i Wainwright hanno fatto dell’auto-terapia una forma d’arte (e non del tutto a torto, considerando che Loudon III ha scritto Rufus is a Tit Man, un pezzo sulla scelta dell’allattamento naturale per suo figlio ma anche sulla sua frociaggine, e che la più giovane della famiglia Martha ha esordito con Bloody Mother Fucking Asshole, canzone non proprio affettuosa dedicata al papà).
Oltre all’episodio della violenza subita da ragazzo ha fatto parecchio scalpore anni fa, dopo l’uscita del suo secondo album Poses nel 2001, la confessione di Rufus sulla sua dipendenza da alcool e droghe varie, e in particolare da quella preferita dai gay americani, il crystal meth. Dopo un buio periodo contraddistinto da promiscuità sessuale senza freni, allucinazioni a sfondo edipico e addirittura una cecità temporanea, su consiglio dell’amico Elton John a fine 2002 Rufus si decide finalmente a entrare in clinica per disintossicarsi. A differenza della sua ben più autolesionista collega Amy Winehouse il rehab per Rufus pare avere funzionato: dal 2003 è un uomo nuovo, sobrio e apparentemente monogamo. Fortunatamente però non ha perso l’ispirazione, e fra il 2003 e il 2004 Rufus pubblica due cd considerati fra i suoi migliori: Want One e Want Two, prima separatamente e poi riuniti in un unico disco doppio, Want, nel 2005.
I due Want sono la quintessenza di Rufus, già a partire dalle copertine: su Want One il cantante si fa ritrarre come un cavaliere medievale, e su Want Two è in versione drag una fanciulla dai lunghi capelli. È la sua doppia anima: quella maschile e quella femminile, quella ironica e quella malinconica, quella pop e quella innamorata della musica più colta.
Nei due album sono finalmente evidenti tutte le sue disparate influenze musicali: dai musical di Broadway a Cole Porter e George Gershwin, dalla musica da camera all’opera italiana e francese, dal folk-rock acustico alla disco. Nei testi ci sono parecchi guizzi di genio (come “No, I won’t be the one/Baptized in cum” in Gay Messiah, in cui si immagina come un Cristo omosessuale reincarnato nel corpo di una pornostar degli anni Settanta), c’è il desiderio omoerotico di Memphis Skyline, dedicata al compianto Jeff Buckley (“So kiss me, my darling, stay with me till morning”), il pathos marpione di Vibrate (“My phone’s on vibrate for you/ Electroclash is karaoke, too/ I try to dance Britney Spears/ I guess I’m getting on in years”). Nonostante qualche virtuosismo un po’ barocco e qualche eccesso di narcisismo, questi due dischi cementano definitivamente il suo status di dandy frocio del pop, insieme al dvd autobiografico All I Want che comprende numerose performance live, interviste agli inevitabili famigliari e commenti dei suoi amici più celebri (Elton John, Sting e Jake Shears degli Scissors Sisters, fra i tanti). Durante il tour Rufus incontra anche il tedesco Jörn Weisbrodt, come lui appassionato d’opera. È subito grande amore, e Jörn è tuttora il suo inseparabile partner.
Il 2007 è un anno importante per il cantautore: esce Release the Stars, il suo album più dichiaratamente commerciale co-prodotto da Neil Tennant dei Pet Shop Boys. Curiosamente, se è vero che fra tutti i suoi dischi ha raggiunto le posizioni più alte delle classifiche britanniche e statunitensi, è anche quello che ha ricevuto le accoglienze meno calorose della critica (qualcuno l’ha definito “uno scivolone nell’autoparodia”). Il tour che fa seguito all’album, però, conferma ancora una volta che questo artista dà sempre il meglio di sé soprattutto dal vivo e che sul palco emerge tutto il suo istrionico talento. Sempre nello stesso anno esce anche Rufus Does Judy at Carnegie Hall, che è il live di un suo clamoroso concerto tenuto il 14 e il 15 giugno 2006 a New York, dove abita da anni (e ripetuto poi a Londra, Parigi e Los Angeles). La doppia serata è il coronamento di un suo sogno: riproporre dal vivo il materiale originale di quella che è da sempre l’icona gay per antonomasia, Judy Garland. Un notevole successo personale per Rufus, pur consapevole del confronto impari: il suo è l’omaggio di un entusiasta, e va considerato come tale. Il pathos di Judy rimane irraggiungibile. Pare che l’operazione non sia piaciuta affatto a Liza Minnelli, che da allora ha tolto il saluto a Wainwright (viceversa Lorna Luft, l’altra figlia della Garland, ha espresso pubblicamente tutta la sua approvazione).
Nel 2008 Rufus realizza anche un altro suo ambizioso progetto: scrivere un’opera lirica. Il libretto in francese di Prima Donna (non un grande sforzo per lui, essendo canadese), gli è costato la collaborazione con la Metropolitan Opera House di New York, che gli aveva originariamente commissionato il lavoro. Rufus, cocciuto come sempre, ha insistito a non voler scrivere in inglese, e invece che nella sua città l’opera è stata rappresentata per la prima volta in Inghilterra nel 2009, nel corso del Manchester International Festival. La protagonista è un’attempata cantante, che durante le prove del suo ritorno sulle scene a Parigi negli anni Settanta si innamora di un giornalista. Riproposta quest’anno anche a Londra, l’opera non ha purtroppo ricevuto critiche molto favorevoli.
Dopo Prima Donna e All All Days Are Nights nessuno può dire cosa combinerà Rufus Wainwright in futuro. Scriverà altre opere? Un musical magari? Oppure farà marcia indietro e tornerà al pop? Forse per ora non lo sa neppure lui. Qualunque scelta farà sarà sempre interessante, ne siamo certi.
ALL DAYS ARE NIGHTS: SONGS FOR LULU
Diciamolo senza indugi: All Days Are Nights è in assoluto il disco più difficile da amare di Rufus Wainwright, quello meno pop, e sicuramente venderà poco. Quarantotto minuti di sola voce e pianoforte, rappresenta un’anomalia nel repertorio del cantautore: essenziale e monolitico, del tutto privo dei fastosi arrangiamenti che hanno contraddistinto gli ultimi album, si discosta completamente dall’esuberanza di Release the Stars e dall’eclettismo di Want One e Want Two. Dopo l’opulenza orchestrale del disco precedente, che era anche il dichiarato tentativo di scalare le classifiche da parte di un artista “di culto”, Rufus sembra aver deciso di smettere di preoccuparsi del numero di copie vendute per dare unicamente ascolto alla sua musa. Le “canzoni per Lulù” sono nate in un periodo per lui particolarmente intenso e difficoltoso: negli ultimi anni ha ultimato la composizione della sua prima opera, collaborato a un progetto di Robert Wilson per il Berliner Ensemble per il quale ha musicato 25 sonetti di Shakespeare (tre dei quali sono inclusi nell’album) e sofferto per la recente scomparsa della madre Kate.
Alcune tracce di All Days Are Nights sono di rarefatta ma indiscutibile bellezza: True Loves è una toccante riflessione sulla solitudine alla fine di un amore, Who Are You New York? è l’amara constatazione di quel che resta della sua città da parte di un autentico “alieno newyorkese”, Martha è la dolente messa in musica di un messaggio lasciato sulla segreteria telefonica della sorella dal capezzale della madre malata, e soprattutto A Woman’s Face, ovvero il sonetto numero 20 di Shakespeare sull’amore omosessuale, in cui la voce di Wainwright e le note del suo piano rendono giustizia a versi leggendari. Echi di Gershwin e Sondheim qua e là, due maestri a cui questo artista deve molto.
In altri brani, però, l’esperimento è meno riuscito: Les feux d’artifice t’appellent è l’aria finale della sua opera in francese Prima Donna che nella versione pianistica risulta poco efficace, e il pezzo di chiusura Zebulon, con la voce di Rufus che si arrampica su un’unica nota di piano ripetuta fino allo sfinimento, lascia davvero un po’ provati.
Più che un disco di transizione All Days Are Nights è il frutto di una convalescenza emotiva, la tappa finale di un percorso accidentato che precede nuove avventure musicali, la messa a nudo di un artista consapevole di qualche eccesso passato. Ascolto tutt’altro che facile, anche per i fan più sfegatati. Un disco austero e desolato, da riservare a quei momenti in cui non si ha paura della solitudine o delle piccole e grandi crudeltà che la vita ci riserva.