Raccontare l’Aids e cosa ha significato nella vita delle persone negli ultimi decenni non è facile, perché manca in Italia una tradizione a cui ancorarsi. Se altrove – si pensi in particolare agli Stati Uniti – ci sono state infatti esperienze culturali, corali e collettive, fatte di letteratura, di cinema, di teatro, di testimonianze, che hanno aiutato per così dire a riordinare il mondo, in Italia è prevalso il silenzio, anche i lutti e le paure sono rimasti relegati nell’ambito del privato e un impenetrabile velo di rimozione ha coperto un fenomeno enorme che ha inesorabilmente sconvolto le nostre abitudini, ma che ancora non siamo riusciti ad elaborare.
A sollevare questo velo di silenzio arriva oggi questo film-documentario di Andrea Adriatico e Giulio Maria Corbelli, + o – Il sesso confuso. Racconti di mondi nell’era dell’Aids, un film molto bello che rimanda per certi versi ai classici del cinema dell’Aids, in particolare a Derek Jarman e al suo testamento filmico Blue, ma che è anche un rigoroso documentario sulla particolare situazione italiana.
Il racconto parte dall’esperienza personale dei due registi, nemmeno ventenni a metà degli anni Ottanta, quando ci sono stati in Italia i primi casi di infezione, che raccontano la loro storia in relazione alla malattia da due differenti punti di vista: quello di chi sa, che ha visto e compreso, che sa i fatti perché li ha vissuti nelle proprie vene, come racconta uno dei due in prima persona mentre intravediamo il suo volto sullo schermo, e l’altro che in altri modi ha sperimentato la paura del male e che rievoca le sue prime confuse conoscenze, il sesso protetto assunto come regola inviolabile, ma poi il riaffiorare del terrore in una siringa abbandonata in un parco o in una banale puntura e poi i lutti e le paure e gli anni senza sapere che fare e cosa dire… con un unico desiderio: rimuovere, allontanarsi, dimenticare, ma sempre con la consapevolezza che il male era lì, anche se ammantato da un doloroso silenzio. Queste testimonianze personali dei due registi sono una dichiarazione di poetica e il punto di partenza della storia collettiva che si intende raccontare.
Seduti su una poltrona bianca, presenza simbolica e straniante, una serie di volti (circa trenta), alcuni noti, altri di persone comuni, si alternano sullo schermo a raccontare ognuno la propria storia. I singoli narratori, voci diverse di una narrazione corale che ci coinvolge tutti, sono persone che in vari modi hanno avuto a che fare col virus perché contagiati o perché per il loro lavoro o il loro impegno sono vicini a chi è stato contagiato (medici, ricercatori, militanti gay, infermieri, giornalisti, personaggi dello spettacolo, politici). Sui loro volti, sempre ben visibili quale che sia la natura della loro testimonianza, oltre che attraverso i loro racconti e i loro ricordi, scorre la storia degli ultimi decenni, dalla rievocazione degli stili di vita e della liberalizzazione degli anni Settanta alla grande paura degli anni Ottanta e dei primi anni Novanta, dai ricordi dei tanti funerali di amici e compagni all’arrivo dei nuovi farmaci, dalla latitanza delle istituzioni alle numerose testimonianze di solidarietà alla grande rimozione dei nostri giorni fino alle inquietanti esperienze del sesso non protetto, il cosiddetto bareback. Quello che emerge non è tanto l’evoluzione della malattia, ma soprattutto il patrimonio di emozioni, di sentimenti, di storie, belle e drammatiche, fatte di solitudine ma anche di straordinaria dignità, di diffidenze ma anche della scoperta di inedite forme di solidarietà.
Un altro piano della narrazione è la scansione in quattro decenni dell’era dell’Aids, che ci vengono illustrati da altri personaggi, il cui ruolo è però diverso. Essi non sono infatti seduti sulla poltrona bianca degli altri narratori, ma si muovono tra i cespugli di una spiaggia, in un museo tecnologico, tra le strade di Roma o sono tra i banchi di un liceo bolognese e guardano lo spettatore negli occhi come a invitarlo a fare il punto sul nostro tempo. Si tratta di un esperto di studi gay, Marco Pustianaz, che ci parla del mitico decennio degli anni Settanta e della rivoluzione dei costumi, di un biologo e narratore, Piersandro Pallavicini, che si sofferma sulle paure degli anni Ottanta e sulle difficoltà della scienza di fronte alla malattia, di uno scrittore, Stefano Benni, che stigmatizza le ingiustizie legate alla paura del contagio, del periodo di morte e rinascita degli anni Novanta, e infine di un gruppo di studenti liceali di quest’ultimo decennio, agghiacciante testimonianza dell’ignoranza e della rimozione dei nostri giorni che ci fa capire quanto invece è importante per le nuove generazioni il recupero della memoria e la narrazione di quello che è stato.
Costruito con grande sensibilità e ricco di suggestioni, il film ha un grande valore didattico non perché ha la pretesa di avere qualcosa da insegnare, ma perché narra vissuti reali con la forza della verità, e si spera che circoli nelle nostre scuole perché può aiutare molto gli adolescenti, più di tanti discorsi, ad avere consapevolezza della complessità di un fenomeno che li riguarda molto più di quanto essi immaginano.