Da anni, forse da sempre, è in corso una accesissima discussione su cos’è un gay pride (o un LGBT pride, o un pride: quello terminologico è un altro motivo di agguerrito confronto).
Riassumo quella che è considerata dalla maggioranza dei partecipanti la risposta corretta: un pride è sia una celebrazione, un momento d’incontro, che una manifestazione politica. Il nome della manifestazione dice tutto: “gay pride”, atto politico di orgoglio omosessuale, celebrazione del non vergognarsi della comunità gay (nel senso esteso di LGBTQI…).
Da alcuni anni, però, è in corso un processo di trasformazione del significato dell’evento. Un complicato puzzle fatto di tasselli sparsi in tutta Italia e diffusi nel corso di decine e decine di mesi, e quindi difficile da tracciare.
A far da cornice a questa metamorfosi la scelta nel 2013 di rinunciare all’organizzazione di un gay pride nazionale, descritta dall’associazionismo come un’occasione per dare ancora più visibilità all’evento ma frutto in realtà di un fallimento tutto interno: l’incapacità di trovare una soluzione definitiva alle lotte che anno dopo anno si svolgevano per deciderne la sede. Roma per la sua centralità politica e geografica, Bologna per il suo ruolo da protagonista nella storia del movimento, Milano per il potere economico di gay e lesbiche milanesi: una sfida a tre per reclamare il ruolo di città leader del movimento, capofila della processione di gay pride locali che erano lo standard fino a quell’anno.
Il risultato? Una processione di cortei locali ma senza nessun capofila (e nessuna direzione comune). In una parola, “frammentazione”: l’Onda pride ha prodotto una serie di eventi più o meno (soprattutto meno) piccoli sparsi fra giugno e agosto, spesso poco popolati e quasi tutti poco rilevanti politicamente se non su scala locale e per un limitato periodo di tempo.
Minore rilevanza anche per la scelta di nascondere a livello di comunicazione le tematiche LGBT, forse nella speranza (vana?) di spaventare meno e quindi attrarre quanto più pubblico possibile.
Sempre intorno al 2013, infatti, i vari pride locali hanno cominciato ad abbandonare la dicitura “gay” o “LGBT”, cambiando denominazione (“Bologna pride”, “Milano pride”,“Roma pride”, “Napoli pride”, e così via) e seguendo l’esempio nazionale dell’Onda pride – scelta di naming comunicativamente incomprensibile, tant’è che quest’anno – solo da quest’anno – è stato aggiunto l’esplicativo sottotitolo “Manifestazioni per i diritti LGBT”.
Un cambiamento comunicativo che, slogan dopo slogan, è diventato sempre più evidente: basti pensare a quello che identificava l’Onda pride del 2015 ed eliminava completamente le tematiche LGBT in favore di un generico “Human pride”, invito a gridare per la difesa dei “diritti umani”. Tematiche apprezzabilissime più affini forse ad Amnesty International che non alla comunità LGBT italiana, considerato un contesto di diritti ben di là dall’essere raggiunto.
Questo cambio del messaggio non è passato inosservato, dividendo la comunità fra chi lo sposa e chi invece lo osteggia a gran voce reclamando l’importanza di una identità chiara per la manifestazione.
A Bologna, per esempio, la risposta a tratti violenta della comunità (fra le più attive d’Italia), ha portato nel 2016 a un recupero dell’identità LGBTQ, presente in maniera esplicita nel logo della manifestazione. Al contrario, a Napoli la componente LGBT scompare totalmente in un logo che pare una celebrazione per pescatori più che un evento gay-lesbico (il tutto sfociato in una manifestazione, lo scorso 28 maggio, passata completamente in sordina per la comunità nazionale). Roma invece ha optato nel 2016 per una diplomatica via di mezzo, che pur mantenendo una nomenclatura priva di riferimenti LGBT (Roma pride) ci ha offerto manifesti con una scelta comunicativa di recupero delle radici del movimento, e una drag queen come protagonista nell’atto di lanciare un tacco: richiamo ai moti di Stonewall che hanno segnato la nascita stessa delle pride parades.
E Milano? Fino allo scorso 10 giugno (prima della pubblicazione della versione online di questo articolo che è reperibile all’URL bit.ly/involuzionepride) la descrizione del Milano pride non citava mai le parole “omosessuale”, “lesbica”, “bisessuale” o “transessuale”. Privilegiando invece le parole legate all’aspetto economico della manifestazione, descritto come un “pride virtuoso che coinvolge e premia le realtà commerciali che vogliono investire sull’evento” e “un’area appositamente allestita dove locali, ristoranti, associazioni e sponsor collaborano per intrattenere il pubblico con musica, eventi di varia natura e un’ampia offerta di street food”.
Insomma, a Milano la comunità LGBT ha smesso di essere un soggetto partecipante, ed è diventato un soggetto pagante.
Mai come ora quindi il movimento LGBT italiano è diviso e confuso nella direzione da prendere, e sembra non avere più uno scopo comune. Perché se si eliminano i riferimenti LGBT, annacquandone la portata in un’insalata di altri elementi, possiamo ancora parlare di orgoglio? E se non c’è più LGBT, e non c’è più orgoglio, per che tipo di manifestazione stiamo sfilando in strada negli ultimi anni?
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