“Una delle mamme deve fare il papà”: il titolo, a tutta pagina, sta in testa a un ampio articolo di cronaca pubblicato nell’edizione di Rimini de Il Resto del Carlino, lo scorso ottobre.
Nel pezzo si riporta il commento di un’esperta sulla maternità di una coppia di donne lesbiche che, grazie alla fecondazione eterologa, hanno dato alla luce due gemellini. Il fatto sorprendente è che, nonostante le virgolette nel titolo facciano pensare a una frase riportata, in realtà quell’enunciato nell’intervista non compare affatto. Soltanto una volta nell’articolo si fa riferimento ai ruoli genitoriali, senza mai attribuirli in realtà a una mamma o a un papà. Quel poco, evidentemente, è bastato per far scattare un automatismo nella mente del titolista e far sbucare ostinatamente, tra quelle due mamme, un papà.
Raccontare le persone lgbt, le loro storie, le loro relazioni, le loro famiglie, richiede le parole giuste, come ogni cosa. Non intendo un vocabolario ad hoc, semplicemente nomi, aggettivi ed espressioni già in uso, scelti con l’obiettivo di produrre un racconto rispettoso della realtà e delle persone che la abitano. E in fondo questo dovrebbe essere uno dei valori fondanti del giornalismo, di chi cioè imbastisce ogni giorno il racconto pubblico dei fatti e delle idee. Purtroppo però non sempre il principio riesce a tradursi fedelmente in realtà.
Un tentativo di migliorare il racconto mediatico di gay, lesbiche e trans lo ha fatto l’unar attraverso le azioni della “Strategia nazionale lgbt”. Nel 2013 è stato pubblicato un vademecum in dieci punti dal titolo “Linee guida per un’informazione rispettosa delle persone lgbt”, esito di una serie di seminari sul tema organizzati in collaborazione con Redattore Sociale, un’agenzia di comunicazione del terzo settore, con il patrocinio dell’Ordine nazionale dei giornalisti e della Federazione nazionale stampa italiana.
Anche Gaynet, l’associazione dei giornalisti lgbt, ha prodotto uno strumento simile, questa volta in otto punti, anch’esso finalizzato a fornire qualche competenza in più agli operatori della stampa, della radio, del web e della tv.
I due prontuari passano in rassegna i termini più importanti, definendone con precisione il significato e l’uso, e tentano di mettere i giornalisti di buona volontà in guardia dagli errori più comuni. Si distingue perciò il coming out dall’outing, si redarguisce l’uso di formule come “utero in affitto” per la gestazione per altri, si spiega l’attribuzione corretta di genere nel caso di transessuali ftm e mtf. Tutte informazioni molto utili, insomma, che se acquisite potrebbero già produrre un rapido miglioramento nello standard dei servizi giornalistici. E in effetti questo miglioramento in molti casi si coglie, grazie anche alla formazione obbligatoria istituita di recente per i professionisti dell’informazione, che ha permesso di diffondere gli strumenti finora descritti.
Tuttavia una parte del problema resta ancora da affrontare e alcuni errori, che sarebbe più opportuno definire “orrori”, ostinatamente resistono. Perché in certi casi non si tratta di un problema di glossario, non basta apprendere un vocabolo e il modo in cui è più opportuno usarlo: certi errori sono radicati nelle convinzioni, esprimono un retaggio culturale, sono l’esito di pregiudizi stratificati, articolo dopo articolo, anno dopo anno.
Così ad esempio, nel pezzo del Carlino di cui si diceva all’inizio, il problema non sta soltanto nella scelta di una parola al posto di un’altra, semmai nell’incapacità di liberarsi da uno schema che vuole la famiglia formata innanzitutto da una mamma e da un papà. E se il papà non c’è, una delle due mamme dovrà vestirne i panni, a prescindere da quello che nell’articolo sostiene la psicologa.
Analogamente, quando si parla di omosessualità e soprattutto di transessualità, oltre ad apprendere parole e generi giusti, bisognerebbe per esempio emanciparsi da quel continuo rimando a un’idea di trasgressione, nelle diverse sfumature, dal freak al sexy, dal pervertito al criminale. È il caso per esempio di un curioso articolo apparso in pieno agosto sul Gazzettino di Venezia, che descrive il degrado di un garage comunale durante le ore notturne. Dito puntato contro i rapporti in auto e le “effusioni tra gay”, trattate come una categorie a parte, quasi che l’omosessualità costituisse un’aggravante. Ed è sempre il Gazzettino, lo scorso 22 novembre, a pubblicare un box di approfondimento dal titolo “L’ombra della molestie gay e quel coltello sempre in tasca”, in cui si traccia il ritratto dell’assassino di un operaio. Tra le ipotesi sul movente dell’omicidio si parla di un rifiuto ad avere un rapporto sessuale, da cui sarebbe poi scaturita l’aggressione. Un possibile movente diventa però nella sintesi del titolo una sorta di reato a sé, “la molestia gay”, come se ci fossero molestie di tanti tipi e perciò di altrettante gravità, e soprattutto come se non bastasse l’evidenza di una vicenda con protagonisti due uomini a far capire che qualsiasi riferimento al sesso sarebbe inevitabilmente sesso tra due uomini.
Da manuale (o forse sarebbe meglio dire da bestiario) l’articolo apparso su Il Messaggero alla vigilia di Ferragosto, che racconta la storia di un ragazzino, un minorenne, finito all’ospedale con la milza rotta. Illuminante il titolo: “Ragazzo gay all’ospedale con la milza rotta” (ora modificato). Cosa c’entra in quel ricovero l’omosessualità del paziente? Il catenaccio non chiarisce: “È caduto dalla bici”, ma il testimone non convince la polizia. Ma un sommario alla fine indica la via: “La squadra mobile indaga sull’accaduto, dietro l’incidente ci sarebbe un rifiuto a un incontro tra omosessuali”. Il giornalista insomma riporta, oltre alla tesi della caduta in bicicletta, quella secondo cui il ragazzo potrebbe essere stato vittima di un’aggressione per aver rifiutato un rapporto con un altro ragazzo. Paradossalmente però, nel titolo finisce tutt’altra informazione, cioè che il ragazzo sia gay, cosa di per sé mai dichiarata, per nulla deducibile dal racconto (il ragazzo ha rifiutato un’avance e potrebbe averla rifiutata proprio perché eterosessuale) ma soprattutto del tutto estranea a quel rapporto di casualità con la milza rotta nel quale il titolo la pone. Perché è l’aggressione ad averlo mandato all’ospedale, non di certo il suo (mai dichiarato) orientamento sessuale.
Da dimenticare (oppure da ricordare solo come monito) la notizia apparsa su La Repubblica, nell’edizione di Firenze, lo scorso 10 agosto, reiterata in una versione sostanzialmente analoga anche dal Tirreno. Il titolo: “Cliente litiga per i soldi della prestazione, il viado gli amputa un dito con un morso”. Salta all’occhio innanzitutto l’uso ostinato del genere maschile (“il viado”), per una persona che evidentemente si presentava con sembianze femminili.
Per visualizzare correttamente la scena bisogna quindi cambiare quel maschile in femminile per tutto l’articolo, così da da dare un senso anche ad alcuni elementi, per esempio la borsetta, che non ci aspetteremmo di trovare in un incontro tra due uomini che si rappresentano come tali. Ma quello che davvero colpisce nel racconto di questa vicenda è il fatto che, nonostante le circostanze facciano sospettare il contrario, si dia per scontato che la transessuale sia la carnefice e il cliente la vittima. I fatti: alla fine di un rapporto consumato in auto, una prostituta e il suo cliente discutono sul compenso, lui tenta di rubare la borsetta a lei, lei lo morde, lui la scarica dall’auto in corsa, tenendosi la borsetta. Sarà la prostituta, in quanto derubata, a rivolgersi alle forze dell’ordine.
Ebbene, nonostante l’evidenza di lui che scappa con la borsa di lei e si guarda bene dal denunciare l’aggressione, i cronisti sembrano dar credito esclusivamente alla versione di lui, cioè che la prostituta abbia chiesto di essere pagata due volte. Chi rischia il processo (per rapina) è il cliente, ma il giornalista senza un dubbio attribuisce a lui il ruolo della vittima.
Appare evidente come passando dall’omosessualità alla transessualità gli errori nel racconto mediatico si ingigantiscano tanto da diventare lampanti. Il migliore esempio lo fornisce un articolo di costume uscito su Gioia alla fine della scorsa estate: un reportage che tracciava il ritratto di alcune trans frequentatrici della celeberrima spiaggia di Capocotta, sul litorale romano. I tratti che accomunano queste bagnanti sono sintetizzati subito nelle prime righe: “li riconosci dal seno esplosivo, frutto della chirurgia ricostruttiva, e da bicipiti o mascelle squadrate, segni di un corpo ancora in parte maschile”.
Questa ricerca del maschile che contraddice il femminile diventa il ritornello ossessivo di tutto l’articolo. Quindi Manuela ha 29 anni, ha “impercettibili segni della barba ed extensions bionde” mentre Lady Pantera, in un inciso, viene elegantemente chiamata “il trans con sembianze da donna e organi sessuali maschili”. Tanto per non lasciare niente alla fantasia. Nella didascalia, naturalmente, le ragazze vengono definite “beach boys”.
Non se l’è vista meglio la celeberrima Conchita Wurst, accolta da Il Mattino di Padova in occasione del suo concerto al Pride Village la scorsa estate con un articolo in cui si coglie una vera e propria ossessione per la barba (“lei, la barba e lui”, “guance con folta e pettinata pelosità”), tanto da coniare un’espressione che non lascia dubbi sul rifiuto dell’autrice per quel tratto sfacciatamente queer: “La bella e la barba”.
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