Firme a perdere

Basterebbe ricordare il famigerato “Gògol” di Berlusconi nell’unica volta che nominò in pubblico il noto motore di ricerca Google per convincersi che la nostra classe politica guarda alle infinite possibilità offerte dal web quantomeno con sospetto.

Nemmeno l’irrompere nell’arena elettorale del Movimento 5 Stelle e dell’idea innovativa quanto ingenua che Grillo&soci hanno della democrazia digitale ha portato maggior fortuna all’uso di internet. Proprio il successo del M5S rappresenta però il segnale di un’esigenza impellente di partecipazione alla vita politica del nostro paese, che aspetta solo il modo più adatto per esprimersi.
E Il web appare quello più prossimo e immediato, tanto che negli ultimi anni le petizioni online sui temi lgbt si sono propagate in maniera così esponenziale da essere ormai un fenomeno rilevante, sia nel senso della rivendicazione dei diritti che in quello, non trascurabile, della loro negazione.
È opportuno ricordare che gli “autografi” apposti su qualsivoglia sito web non hanno alcun valore legale per proporre o abrogare norme, a meno di dotarsi della cosiddetta firma digitale tramite un apposito software, circostanza che per ora nessuna piattaforma di petizioni online prevede.

Le firme che digitiamo sul web vanno intese più che altro come adesioni personali a una specifica iniziativa sulla quale sensibilizzare la politica nazionale e internazionale, o per suscitare un qualche riverbero sui mass media più tradizionali.

Le piattaforme più importanti nascono negli Stati Uniti e sono delle società benefit-profit, cioè “interessate al bene comune” e che però fanno anche profitti (come Change.org); oppure sono delle associazioni non profit (come Avaaz e MoveOn), o ancora dei social network (come Care2); alcune di queste possiedono versioni in diverse lingue, tra cui la nostra.

Change.org è il sito che in italiano ha il maggior numero di petizioni a favore dei diritti gay e che registra però un solo discreto successo: le 101.242 sottoscrizioni apposte all’appello lanciato da Dario Fo a Guido Barilla affinchè rivedesse la sua politica aziendale dopo le grossolane dichiarazioni omofobe pronunciate nella trasmissione radio La Zanzara. Seguono poi decine di altre iniziative che spesso si sovrappongono negli argomenti, giacché l’apertura di una raccolta firme è libera e può nascere dall’iniziativa delle associazioni lgbt più blasonate, ma anche di qualunque altro singolo cittadino.

Ci sono le 50.000 firme che chiedono con urgenza una legge contro omofobia e transfobia (petizione promossa da Arcigay nazionale), oppure la recente richiesta al Consiglio regionale lombardo di ritirare la mozione che istituisce la “Festa della Famiglia fondata sull’unione tra uomo e donna” arrivata al 17 luglio scorso a ben 30.000 firme.

Molto seguito ha poi l’appello per sensibilizzare sui temi lgbt i candidati italiani alle elezioni europee: dopo averlo lanciato, Arcigay ha registrato 25.000 adesioni fino al 16 maggio scorso, quasi un mese dopo la chiusura dei seggi elettorali. Un piccolo ma significativo traguardo gli aderenti a Change.org l’hanno poi conseguito a proposito dell’imbarazzante libretto con le “barzellette gay” allegato ad agosto al settimanale Visto: 9.219 persone hanno convinto il direttore Roberto Alessi a scusarsi formalmente per lo scivolone dalla terza pagina del suo giornale.

Avaaz.org non si distingue per la quantità di battaglie arcobaleno avviate in lingua italiana; per contro ha però stabilito un record per una petizione online: 1.686.310 firme vergate, tra gli altri, anche dagli utenti italiani per impedire l’approvazione della pena di morte in Uganda per gay e lesbiche. Anche grazie a questa iniziativa nel 2011 la legge è stata congelata, ma è rispuntata fuori nel febbraio scorso sotto forma di un testo che punisce l’omosessualità “solo” con l’ergastolo.

Tutte le altre petizioni accese da cittadini e militanti raccolgono sulle varie piattaforme le briciole delle adesioni complessive: poche centinaia di firme per diverse formulazioni atte a ottenere il matrimonio egualitario e una legge anti omofobia; la solidarietà verso i gay russi in occasione delle olimpiadi invernali di Sochi; la richiesta rivolta al proprio sindaco di istituire un registro simbolico delle unioni civili, oppure di ignorare l’odiosa circolare con la quale il ministro Alfano intende bloccare la trascrizione dei matrimoni gay celebrati all’estero, e così via.
L’universo dei firmatari omofobi è apparentemente meglio organizzato e compatto rispetto a quello in favore dei diritti, i cui simpatizzanti sono abituati a procedere in ordine sparso. Gli attivisti antigay si indirizzano infatti su poche piattaforme precise, come la spagnola CitizenGo (in italiano), rilanciando poi le campagne d’odio attraverso siti, pagine Facebook e account Twitter dei vari media fondamentalisti cattolici – e filonazisti – come Tempi, Notizie ProVita e La Nuova Bussola Quotidiana. I numeri sono di tutto rispetto – viaggiano sulle decine di migliaia di adesioni per ciascuna iniziativa – raccolti però, come fa Avaaz, in vari paesi del mondo: non a caso, sulla pagina di una petizione di interesse molto nostrano come la richiesta di rimuovere la bandiera arcobaleno dalla cima del Campidoglio romano compaiono inquietanti testi in cirillico.

I temi antigay sono monotoni nella loro ossessiva ripetitività, e ovviamente ricorre insopprimibile l’esigenza di bloccare ogni tipo di progresso contro l’omofobia e a favore del matrimonio egualitario.

Ma c’è anche la petizione per rimuovere dai muri della Svizzera i poster informativi sul sesso sicuro ritenuti “pornografici” (5.365 firme); la richiesta alla ministra dell’Istruzione Giannini di arrestare la “propaganda omosessualista nella scuola italiana” (23.776 firme); un ringraziamento collettivo ai consiglieri regionali lombardi per il varo della mozione sulla “famiglia naturale”, dal loro punto di vista un successo in piena regola (19.093 firme). Ci sono anche petizioni più “frivole” e deliranti come le 29.189 adesioni di protesta rastrellate contro un programma satirico Rai che avrebbe alluso a un rapporto gay tra Gesù e un apostolo, oppure quella che voleva impedire l’esibizione a Sanremo del cantante gay dichiarato Rufus Wainwright (67.752 firme).

Che siano ostili o favorevoli alle rivendicazioni gay, a questo punto è importante cercare di capire quanto contino davvero nel panorama politico italiano gli appelli sulle tematiche gay lanciati nella rete. Per l’occasione ci facciamo guidare da Cristopher Cepernich, sociologo dei media e dei fenomeni politici al Dipartimento di Culture, Politica e Società dell’Università degli Studi di Torino, nonché uno degli animatori del portale Political Communication Monitor. Rammentando come in Italia i temi dell’economia siano considerati sempre in cima alle priorità dei cittadini, spesso a scapito dei diritti civili, Cepernich ribatte che “ogni argomento può entrare nell’agenda politica e questa è modificabile se facciamo qualcosa di efficace per modificarla”.

“Dobbiamo però distinguere l’agenda politica da quella dei mass media: sono diverse e separate”, annota Cepernich. “Dal mio punto di vista gli strumenti come le petizioni online possono essere utili. Credo però sia molto difficile influenzare l’attività della politica di palazzo solo con quelle o solo con la presenza capillare sui social network. Inoltre, nei pochi casi in cui il rapporto diretto tra i due fattori si è manifestato non è stato in modo virtuoso: penso all’elezione fallita del presidente della Repubblica e la pressione che la base del Pd ha esercitato sui suoi eletti per votare o meno certi candidati invece che altri”.

Cepernich non allude alla rielezione di Napolitano in sè, sulla quale si potrebbe discutere, ma al fatto che “il meccanismo col quale ciò è accaduto è alquanto bizzarro. Siamo arrivati al punto di pensare che quanto esisteva in termini di visibilità su Facebook e Twitter fosse rappresentativo dello stato d’animo di una nazione e di un elettorato diffuso, e la cosa non era affatto vera se giudicata a posteriori; non solo in quel momento storico ma direi in assoluto, perché sui social agiscono solo tre milioni di persone: una piccola minoranza, anzi un’élite. In sociologia questo fenomeno si definisce ‘effetto aggregante’”.

L’influenza delle petizioni online e degli appelli via social, quando c’è, è il sintomo perciò di una realtà distorta e relativa, ed è illusorio pensare che possano davvero modificare il sentire comune su un dato argomento, comprese le istanze lgbt, a meno che, continua Cepernich, non si lavori per “creare un’intermediazione tra tutti i mass media, sia quelli tradizionali mainstream che quelli 2.0. Se la campagna sui diritti gay riesce a entrare in relazione con la televisione e con la stampa ed entra nel tam tam diffuso, allora può avere la possibilità di funzionare sul serio.

Il nostro è un sistema di media ibridato, dove il singolo medium, compresa la televisione generalista, non ha nessuna capacità di incidere su alcunché. Se invece attraverso Facebook sono capace di mobilitare tutta una serie di persone sulla causa che mi sta a cuore e poi a portarle in piazza, a firmare la petizione online, a farmi vedere per qualche giorno nei tg, ad arrivare ad Agorà su Raitre, a farmi intervistare da Corriere, Repubblica e L’Espresso – che certo non contano per la massa ma contano ancora moltissimo per la politica – e se il web e le piattaforme di petizioni online sono solo una parte di questa strategia integrata, allora la mia capacità di incidere sull’agenda politica aumenta”.

Gli scarsi risultati ottenuti dal movimento gay in questi anni si potrebbero spiegare anche, secondo Cepernich, con la mancanza nella sua comunicazione “dell’elemento strategico di medio periodo, mentre prevale la tattica. Non so se sia una questione di organizzazione, certo visto dall’esterno questo movimento arriva ai media coi singoli eventi, riesce a ottenere la classica curva d’attenzione nell’immediato ma dopo un giorno questa è destinata a crollare”.

Nemmeno un’ottima capacità di comunicare le proprie ragioni, per quanto sacrosante, è sufficiente a ottenere i diritti, perché “se quella comunicazione non viene convogliata in una fase di tipo organizzativo; se non c’è la presa in carico del messaggio da parte delle associazioni lgbt e la capacità di trasformare la comunicazione in policy, ossia in politica concreta e non in chiacchiere vuote, allora quel messaggio è destinato a cadere nel vuoto. La tua petizione può raccogliere 130 o 130.000 firme, però ho l’impressione che dal giorno in cui si lancia al giorno in cui si conclude la faccenda finisce male se nessuno si preoccupa di portare quelle firme nei luoghi decisionali nel modo corretto”.

Il problema sta anche nella poca consapevolezza con la quale l’utente medio favorevole ai diritti gay appone il proprio autografo sulle petizioni online. “La questione riguarda anche chi è contrario, attenzione! Solo che quest’ultimo ha un vantaggio: difende lo status quo, non deve riformarlo. È chi deve modificare la situazione attuale a portare il peso di agire in termini aggregativi. Peccato che invece prevalga, per dirla come il sociologo dei nuovi media Evgenij Morozov, l’attivista da salotto, quello che aderisce alle cause non tanto perché ci creda davvero o per ribadire chissà quale identità politica, ma perché gliel’ha chiesto un amico e la fatica di farlo è minima.

Mi scappa un’altra citazione: c’è un libro di Fausto Colombo che si chiama Il potere socievole, dove si racconta che la leggerezza è la caratteristica principale dei social network; tutto è trasformato in evanescenza, direi addirittura in cazzeggio, che si parli di diritti civili o dell’appuntamento per mangiare la pizza con gli amici. Proprio per questo il mezzo 2.0 va usato con oculatezza: quello che conta è la narrazione strutturata e continuativa delle istanze del movimento lgbt, in modo da fornire a ciascuno dei nostri concittadini – che sia la signora Maria che fa il sugo in cucina o io e mia moglie che partecipiamo ai pride di Torino ogni anno – tutte le informazioni utili e necessarie a presentare il mondo gay così com’è, e non come ce lo figuriamo se dessimo retta a stereotipi e cliché. Solo così otteniamo una riuscita mobilitazione cognitiva”.

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