Sanremo sottotono

Outing e/o coming out rivelano che sei gay, altrimenti dillo, svelalo e svelati. E a Sanremo, di riffa o di Raffa (ma questo è un capitolo a parte…), sì, dove c’è il Festival di Sanremo quest’anno coincidente con il suggestivo Festival della Babbiona, in un posto anche in prima fila il gay ce l’hai di sicuro.
Altro che essere friendly. Non ti smarcare troppo se sei etero convinto e anche un po’ diffidente che i “gay sono così sensibili ed è per questo che ce ne son tanti nello spettacolo”, Sanremo è garantista e poverino tu. Se poi sei anche giovane, sicuramente vessato e scrivi canzoni d’amore per il tuo ragazzo è quasi fatta…
Mai come quest’anno il protocollo del “correttissimo” sull’orientamento sessuale di chi va in tv a canticchiare canzonette a Sanremo è stato rigido, applicato fino all’ultimo dettaglio con quasi, anzi senza il quasi, nessuna provocazione e men che meno nessuna reazione “istituzionale”. Tutti “amorevoli”, “comprensivi”, tutti a divertirsi quando c’è la Carrà che, sfidando i secoli e l’iperventilazione del proprio poderoso apparato respiratorio inanella Cha cha ciao della Nannini (oh, ma non è una “roba tra donne”, sia chiaro), una nuova hit che sembra Mamma Maria dei Ricchi e Poveri e Born To Be Alive di Patrick Hernandez, in un continuo rimando tra gay style e gay icon. Ma è un nulla a confronto dei “pezzi da novanta” sbarcati su quel lugubre palco un po’ Guantanámo, un po’ veglia funebre con il nero dominante della scena, i musicisti dentro avelli, i cantanti vestiti a prefica come dovessero andare a intonare “odi al defunto” (tranne la coraggiosa “Ape Maia” Noemi nella sua prima esibizione), e i conduttori-sacerdoti più deliziosamente bruttini ma “amici” che si potessero trovare.
Nel rendere omogeneizzato e inoffensivo il Festival della tolleranza (ma c’è sostantivo più brutto di questo?) anche Rufus Wainwright, il blasfemo che si mette in croce quando è in scena e ulula (dice lui) per diventare un bravo cantante (Elton John dice che è il più grande cantautore vivente, e se lo dice lui o è vero o, seppur sposato, già ha in mente un mezzo tradimento…). Un Festival da mesto incedere, senza follie che potessero distrarre, perché è il nuovo che avanza.
C’è però ancora qualcuno che deve insegnarci, come fossimo birbantelli ignoranti a cui piace solo il superfluo (magari fosse vero) cos’è la bellezza, fino a farne un “elogio” lungo cinque sere… Già, l’elogio della bellezza. Quante volte Fazio ha pronunciato il “suo” concetto di bellezza come terapia per sostenere un Paese in crisi? Una volta sarebbero servite canzonette scacciapensieri, ora è come se “bellezza” avesse fatto rima solo con “tristezza”, salvo qualche rarissima eccezione.
Due canzoni all’ora, inoltre, non sono un “dosaggio Festival” ma show puro e semplice e, non fosse stato per qualche “colore” della Littizzetto, Sanremo ha avuto un andamento austero, dove avrà anche trionfato l’amore (più nei testi che nelle melodie alcune molto vicine allo stile “requiem”) ma spesso, chissà poi perché, si ritiene “alta” una canzone da “adagio” e “bassino” un motivetto che t’entra in testa come fosse un trapano.
Proprio in virtù del concetto “la bellezza è soggettiva (l’Arte no)” la prima, in stile, mise, precisione dell’intonazione Arisa, (per chi se la ricordasse ormai una copia carbone della meravigliosa soubrette francese Zizì Jeanmaire, quella delle piume) con il suo stato di “nouvelle star gay” è stata l’unica vera protagonista suo malgrado del rinnovamento, altrimenti escluso, di ricambio generazionale per “idole “ dei moderni e giovani gay people. Affidate al museo della memoria le fin troppo sfruttate Oxa, Pravo e similari, ecco questa “paesana” che s’è fatta signora, altera quanto basta e l’unica che canta pop e un po’ se la tira come sanno fare quelle che hanno personalità.
Agli antipodi, invece, c‘è quel normalissimo “ragazzo gay” a nome Renzo Rubino (già visto nella categoria giovani l’anno scorso, ma per un anno poi cos’ha fatto?), non particolarmente intonato, con quella barbina implume e la faccia da orsetto lavatore, buono, ragionevole, con una bella canzone che un po’ si ricorda e un po’ no.
Ma tutto ha un limite, anche la ragionevolezza, anche il politically correct tutto giocato sul non dispiacere a nessuno, tutto moderato e quindi sorprese zero.  Anche lo spettacolo da commentare, se senza dettagli di possibile cattiveria da parte di chi guarda (gay o meno), con niente da offrire come aggiunta velenosa o nessun arsenico da servire come battuta da qui alla prossima primavera fa innervosire chi dal Festival vorrebbe qualche pillola di curaro. Un’annata così moderatamente ormonale ci ha resi come tortore sull’orlo dell’agonia e in attesa dell’estrema unzione, senza che nemmeno uno straccio di canzonaccia “kitsch” ci faccia da colonna sonora…