Pusher contro l’Aids

È difficile rimanere impassibili di fronte al film del canadese Jean-Marc Vallée, il regista dell’ottimo C.R.A.Z.Y., che sa catturare le corde giuste dell’emozione, merito sì della storia ma anche dei bravissimi protagonisti Matthew McConaughey e Jared Leto (che per l’interpretazione hanno dovuto perdere molti chili, il primo addirittura 23). Infatti ha già vinto molti premi e conquistato un Golden Globe come migliore attore non protagonista (ma tra un po’ ci saranno gli Oscar e tanti giurano che è impossibile che McConaughey non lo vinca…).
Siamo in Texas, nel 1985. L’elettricista Ron Woodroof (McConaughey) è un etero rozzo e prepotente, razzista e fortemente omofobo. È il tipico bifolco texano macho che vive, credendosi al di sopra di ogni cosa, tra cavalcate su tori e trasgressioni di ogni tipo: alcool, cocaina, scommesse e donne a volontà. Un giorno però apprende stupefatto di avere contratto l’Aids, trasmessogli da una prostituta, e quindi di avere solo 30 giorni di vita. Convinto che la malattia colpisse solo gli omosessuali, i primi giorni ignora la cosa ma poi si rende conto della sua gravità e da allora fa tutto quello che può per allungare quanto più possibile la sua vita.
Mosso da una fortissima voglia di vivere, rifiuta dunque le cure ufficiali, poco efficaci, e va in Messico; lì apprende da un ex medico dell’esistenza di cure alternative nonché a base naturale, senza i tremendi effetti collaterali di quelle, come l’AZT, proposte dalla Food and Drug Administration.
Poi decide di importare clandestinamente quei medicinali negli Usa, vendendoli a malati di Aids. Assieme a Rayon (Leto), una transessuale anch’essa malata, con la quale stabilisce un profondo rapporto nonostante la forte diffidenza iniziale, Ron crea così il Dallas Buyers Club che, dietro il pagamento di una quota mensile, fornisce farmaci che rallentano la malattia. Inizia perciò a frequentare luoghi gay per portare al club chi ne ha bisogno. Tutto ciò nonostante la FDA, che non vuole che si contrabbandino medicinali e che supporta sfacciatamente le lobby farmaceutiche, lo costringa continuamente a sequestri, denunce e processi. Un braccio di ferro quasi epico che dura fino alla morte di Ron, nel 1992 (ossia più di 2500 giorni oltre quelli diagnosticati).
Il film di Vallée, girato con piglio un po’ documentaristico e con una fotografia volutamente sporca, ricostruisce efficacemente il contesto storico degli anni, segnati dalla paura e dall’ignoranza, della comparsa dell’Aids, quando gli omosessuali diventarono il capro espiatorio della malattia.
La storia è vera, anche se un po’ romanzata (Ron è l’unico personaggio reale), e fu resa nota la prima volta dal giornalista Bill Minutaglio. Poi lo sceneggiatore Craig Borten intervistò lo stesso Woodroof, ma ci sono voluti vent’anni prima che il film vedesse la luce.
Dallas Buyers Club mette a fuoco soprattutto due temi. Il primo è quello di un’America che, convinta che la malattia fosse legata solo all’omosessualità, prima l’ha volutamente ignorata e poi l’ha sfruttata cinicamente per interessi commerciali.
Il secondo è la redenzione di un uomo (l’incarnazione di un’America arcaica e violenta, che poi si sgretola di fronte a realtà nuove) che, lottando disperatamente per la sua sopravvivenza, è protagonista di un’eccezionale trasformazione interiore. Appena si sa che è malato di Aids, Ron viene infatti subito identificato come faggot (checca) e quindi brutalmente emarginato.
Sono due temi di sicura presa sul pubblico ma, per la verità, visti già tante volte: l’impari lotta contro i potenti, di Davide contro Golia (si pensi a Guerra al virus) e l’ignorante che, grazie a un incontro con il diverso, si converte (Philadelphia). Da questo punto di vista, il film può dunque apparire furbo e ruffiano; inoltre non è esente da qualche difetto: è un po’ lungo, talora lento, i buoni e i cattivi sono troppo esasperati, e gioca troppo sul protagonista, tralasciando personaggi interessanti come Rayon o anche la dottoressa Eve Sack (Jennifer Garner), che avrebbero sicuramente meritato più spazio.
Ma tutto ciò non toglie niente al film, che è importante nonostante, o forse proprio per quello, il fastidio che a volte procura nello spettatore. Un fastidio che si riscontra innanzitutto nel protagonista (un grandioso McConaughey, scheletrico e scavato nell’anima, capace di esprimere compiutamente dolore e disprezzo): un personaggio non certo simpatico, anzi irascibile e zeppo di difetti, ma sempre fedele a se stesso e per questo umano e generoso (inizia la sua crociata per far soldi ma poi aiuta chi ne ha bisogno).