Marocco tragico

Diversamente dalla maggior parte degli altri paesi del Nordafrica, il Marocco non ha conosciuto nell’ultimo anno drammatici cambi di regime o rivolte popolari di irresistibile portata. Fino a non molto tempo fa era anzi indicato come esempio dagli osservatori europei, a volte un po’ distratti, per il suo sviluppo economico e sociale. Il suo giovane re (ormai quasi cinquantenne) Mohammed VI, salito al trono nel 1999, è stato il simbolo dell’evoluzione possibile di regimi polizieschi come quello di suo padre, Hassan II, verso maggiori libertà civili e democratiche. Dopo oltre un decennio di regno questa immagine modernizzatrice appare senz’altro sbiadita, come hanno del resto testimoniato le proteste di piazza dello scorso anno alle quali il monarca ha reagito con promesse di cambiamento di là da venire. Le pesanti eredità del passato persistono anche in questo lembo occidentale dell’Africa relativamente più “felice”. Proprio di queste ci parla lo scrittore marocchino trapiantato a Parigi Abdellah Taïa nel suo quarto romanzo Ho sognato il re, pubblicato in Francia nel 2010 e tradotto ora in italiano per Isbn edizioni. Una storia che mette in qualche modo tra parentesi – anche se non troppo – l’omosessualità che era stata al centro dei libri precedenti per concentrare l’attenzione maggiore sul tema dell’ingiustizia sociale.
Taïa si occupa della questione a modo suo, con taglio lirico e inattuale, senza minuziose analisi critiche o pretese da affresco storico ma lasciando parlare con semplicità l’anima dei personaggi. Del protagonista narrante in particolare: Omar, un quattordicenne povero ma bello che vede crollare il mito dell’amicizia con un compagno di scuola di famiglia ricca sotto il peso di una realtà che incalza e non perdona. L’età dell’innocenza, in cui anche le barriere sociali hanno un’importanza relativa, sta per concludersi inevitabilmente. In breve l’amico del cuore Khalid se ne andrà altrove per frequentare un liceo esclusivo al quale la nascita lo ha destinato, lasciando Omar ancora più solo dopo che la madre l‘ha abbandonato insieme a un padre inconsolabile per la perdita della moglie. Sta per finire il tempo dell’intimità gemellare in cui i due ragazzi hanno a volte l’illusione di essere un corpo unico, rannicchiati ad amarsi nello stesso letto, e un importante evento esterno fa precipitare la situazione. È un giorno di giugno del 1987 quando il direttore della scuola annuncia alla classe che Khalid è stato scelto per presenziare al ricevimento organizzato dal re Hassan II per onorare i migliori studenti del paese di quell’anno. È la storia che fa irruzione, con tutto il peso del divario sociale che separa Omar da Khalid, e distrugge in un colpo il loro legame. Va da sé – l’autore non ci insiste più di tanto – che Khalid non è stato scelto a caso, ma non è questa la considerazione cosciente che annichilisce Omar. Il ragazzo si sente tradito perché l’amico, che evidentemente aveva saputo in anticipo dell’onore che gli sarebbe toccato, non lo ha informato di nulla, rompendo così unilateralmente il loro vincolo esclusivo. Di qui in avanti l’atmosfera diventa cupa e Omar si lascerà trascinare in un gorgo di risentimento le cui tragiche conseguenze ricostruisce poi nella memoria in una sorta di delirio poetico. L’importante non sono poi tanto i fatti quanto le sensazioni e il ricordo che lasciano, passando dal rassicurante calore dell’infanzia alla percezione di un’assenza di futuro che rende letteralmente folli. È forse qui che bisogna scavare per cercare di interpretare dinamiche politiche recenti alle quali Taïa neppure allude ma di cui sembra volere portare allo scoperto le radici remote. In fondo anche lui, come tanti altri giovani del suo paese, ha scelto l’esilio volontario in Europa per inseguire il proprio sogno di essere scrittore e gay dichiarato. Ma da qui continua a interrogare il nucleo emotivo che lo riconduce infallibilmente al paese che ha lasciato e che rimane al centro della sua elaborazione letteraria e politica. Se non fosse “fuggito” non sarebbe forse mai diventato il primo scrittore marocchino a fare coming out, ma l’uscire fuori di per sé non sarebbe stato utile e importante se non per tornare in Marocco con le sua presa di posizione in grado di favorire un cambiamento.
In quanto scrittore, come abbiamo detto, Taïa non ha la pretesa dell’intellettuale che costruisce strutture complesse, individua cause o addirittura propone soluzioni in termini logico-razionali. Si affida alle immagini che sollecitano la sua interiorità, con una lingua e un ritmo essenziali che sembrano ignorare di proposito l’influenza delle tradizioni letterarie codificate. Un po’ il contrario degli autori tecnicamente perfetti ma mai troppo autentici da scuola di scrittura creativa. La letteratura sembra che l’abbia inventata lui, imperfezioni incluse, per misurarsi con gli eterni argomenti che ne costituiscono l’oggetto come se fosse di nuovo la prima volta. È questa la sua caratteristica e, se si vuole, allo stesso tempo il suo limite.