Il poeta è nudo

Conoscevamo Vittorio Lingiardi come professore di psicologia all’Università di Roma, psichiatra e psicoanalista, autore di libri sull’identità di genere e sull’omosessualità, oltre che di importanti articoli apparsi su riviste specializzate italiane e internazionali. Non sospettavamo però che fosse anche un raffinato poeta. Il suo ultimo libro è infatti una raccolta di versi che sorprende per la padronanza del linguaggio poetico, con cui delinea una intensa storia di dolori, di amori e di ricerca di sé passando con straordinaria disinvoltura, pur conservando sempre una sua cifra unitaria, dall’introspezione lirica all’ironia e all’autoironia, ricorrendo a similitudini spiazzanti e a dettagli e immagini che colpiscono come rivelazioni (Vittorio Lingiardi, La confusione è precisa in amore, Nottetempo, Roma 2012, pp.112, euro 7,00). Lo abbiamo intervistato.
Presentando il libro a Roma, hai detto che quello di poeta è il tuo secondo coming out, “quasi più difficile del primo”. Perché?
Un po’ scherzavo, ma non troppo. Il poeta è nudo. La poesia non vuole infingimenti. Rivelare di scrivere poesie e addirittura renderle pubbliche rimescola un po’ le carte anche a livello di identità sociale, soprattutto se uno è professore universitario e nemmeno in tenera età come me. C’è voluto coraggio.
Come concili la scrittura poetica con il tuo lavoro di analista?
Stando ai “ruoli”, l’analista ascolta e il poeta parla, ma quello che unisce le due figure è la ricerca della verità personale, mia o dell’altro. La ricerca dell’idioma, dell’origine di sé. Per questo c’è una sezione del libro che si apre con la frase dell’architetto catalano Antoni Gaudì “Originalidad es volver al origen” (l’originalità sta nel tornare all’origine). La poesia, la costruzione del verso, è diventata il mio modo di osservare il mondo e questo a volte mi aiuta nel lavoro di analista. Mi facilita il compito di stare in contatto con la memoria, i ricordi, i sogni. Ha ragione lo psicologo junghiano Hillman quando parla di una “base poetica della mente”. I neuroscienziati e gli psicologi cognitivi che studiano il rapporto tra cervello e linguaggio considerano la poesia come uno degli eventi del cervello che “costruisce” la realtà in cui viviamo. I versi sono righe brevi, la poesia si serve della rima e di figure formali che permettono letture del mondo immediate, profonde, ritmiche. Neurali, oserei dire. La poesia per me ha anche a che fare con l’ironia e con l’autoironia. Una poetessa italiana, Maria Grazia Calandrone, in una recensione uscita su Il manifesto, ha detto che possiedo “il dono di una ironia così seria da essere liturgica, una posizione esistenziale paradossale, insieme aderentissimo e laterale”. Ecco, temo sia proprio così: “aderentissimo e laterale”. Lei lo dice meglio di come ho provato a spiegartelo io.
Confusione e precisione, come nel titolo del libro?
La confusione è precisa in amore è un titolo ossimoro. Si contraddice. Per me le parole sono l’avvenimento che ferma il disordine (disorder in inglese è anche il disturbo mentale). Non si può fare a meno della precisione delle parole. L’amore può generare confusione, i greci parlano di “mania amorosa”. La parola del poeta aiuta a trovare la forma e il senso. Al tempo stesso, quando l’amore è necessario, è lui stesso a dare senso alla vita, a precisarne la direzione.
Leggendo le tue poesie appare chiaro che frequenti la scrittura poetica non da oggi. Quando hai cominciato a scrivere versi e quali sono i tuoi modelli?
Prima ho iniziato a leggere, la mia adolescenza è stata segnata dalla lettura poetica. Una lettura, e poi una rilettura, continue che hanno creato una grande famiglia interiore e quasi una genealogia poetica. Poesia italiana (Penna, Pasolini, Saba, Morante, Magrelli, Cavalli). E poi Donne, Rilke, Auden, Whitman. E molto Ginsberg, i suoi magnifici Cosmopolitan Greetings. E Wislawa Szymborska – grandissima – che ci ha lasciato da poco. Ho iniziato a scrivere intorno ai vent’anni. Mia madre si era ammalata e morì di lì a poco. Ho capito che per me la poesia costituiva un modo per dare una forma al dolore. Quindi per contenerlo, e anche per guardarlo. Lo esprime bene un grande poeta americano, Robert Frost, nell’esergo che ho scelto per la mia raccolta: “A poem is an arrest of disorder” (Una poesia è una sospensione, un contenimento del disordine).
Poi ho scoperto che ogni grande affetto ha una sua forma, e così ho iniziato a scrivere anche di grandi gioie. E per amore.
C’è una tua poesia, struggente, dedicata a Giovanni Forti, esponente importante del movimento gay, tra le prime vittime dell’Aids in Italia. Chi era Giovanni Forti per te?
Ti do una risposta telegrafica: un grandissimo amico, la persona che mi ha fatto leggere Elsa Morante.
Alcune di queste poesie sono dedicate a una donna, in altre è in primo piano l’amore gay fino alla bella rappresentazione di un amore coniugale tutto maschile: “Ci cerchiamo nel sonno/ a manate pesanti, il mattino….”. Un’altra “confusione” di questo libro?
Sono tempi diversi della mia vita. Ma anche eterno presente della mia vita. Ancora una volta il rapporto tra poesia e verità personale. Va da sé che quando ciascuno di noi trova la sua verità deve avere le parole per nominarla. Non è più il tempo dell’ “amore che non osa pronunciare il suo nome” di wildiana memoria. L’amore gay non solo deve avere la parola, ma anche il rispetto e la tutela della collettività. E dunque della legge. Il vuoto giuridico produce anche una deprivazione linguistica, ma qui si apre un altro discorso, quello della cittadinanza gay, argomento di un altro mio libro, un saggio però: Citizen gay.