Barboni gay

Un biglietto di sola andata per la grande città e nessun bagaglio. Marco, il fardello di un’omosessualità non accettata dalla famiglia, da un giorno all’altro ha abbandonato tutto: casa, paese, famiglia, lavoro e amici. La metropoli lo ha rapidamente inghiottito: la sua dimora ora è la strada.
La sua è solo una tra le voci di senzatetto gay che la ricerca pionieristica “Approdi Negati” di Arcigay (finanziata dal ministero del lavoro e delle politiche sociali) ha ascoltato. Quelle storie offrono i contorni ancora sfumati di un fenomeno, fino a ieri, del tutto inafferrabile. I “barboni” omosessuali, lesbiche e trans se ne stanno infatti ben mimetizzati tra quei 17 mila senzatetto che vivevano in Italia secondo una stima del lontano 2000, contestata dalla Caritas perché esigua, oppure tra quei 24 mila senza dimora che vivono nella sola Roma secondo una ricerca del comune dell’anno scorso. Numeri vaghi, solo rappresentazioni di un fenomeno complesso nella sua globalità e illeggibile, fino a ora, nello specifico dei diversi orientamenti sessuali.
A differenza poi di altri paesi dove studi sulla marginalità gay (soprattutto degli adolescenti) sono stati prodotti, in Italia nemmeno il caso Natale Morea, “barbone” queer insignito della medaglia al valore civile dall’allora presidente Ciampi per aver sventato una aggressione ad alcune ragazze pagando con mesi di ospedale il gesto generoso, ha ottenuto lo straccio di una analisi. Lo denunciava il nipote dell’uomo: “Mio zio Natalino è un omosessuale, un diverso, un travestito. Deriso e scacciato da tutti, è andato via come un appestato, questa è la verità che adesso nessuno vuol ascoltare e tutti fingono di non conoscere”.
A dare la parola ai Natale Morea ci ha pensato proprio “Approdi negati” con interviste ai senzatetto e agli operatori di dormitori (strutture che li accolgono) e associazioni di solidarietà laiche e cattoliche. E gli invisibili hanno preso parola dandosi di gomito, con un mezzo sorriso sulle labbra: “Mi intervistano: oggi sono importante”.
C’è G., un 50enne con un problema di tossicodipendenza alle spalle che ha perso il lavoro come domestico e con esso, irrimediabilmente, la casa. Accolto in un dormitorio, abbandonerà la struttura per convivere con l’uomo di cui si innamora. Ma a causa di una rottura improvvisa l’orizzonte tornerà ad essere d’asfalto. Il senzatetto condividerà la strada con un altro uomo senza fissa dimora: “È stato il grande amore e ora, dopo una breve malattia, se n’è andato. Avrei tanta voglia di una storia grande come quella”, spiega ai ricercatori.
Ogni esperienza evidentemente è irripetibile e il percorso dei senzatetto è molto più fluido di quanto l’immaginario suggerisce. La strada in senso stretto può essere una parentesi temporanea, viene e va: si dorme in auto, si trova spazio in dormitorio, magari un lavoro e una casa, si torna alla vita normale, oppure no.
Nell’unicità di queste esistenze torna per i gay, lesbiche e trans, un elemento comune. Ce Lo spiega Rebecca Zini, responsabile della ricerca: “L’esperienza di marginalità glbt nasce da un lento logoramento dei rapporti con la famiglia e con la rete sociale di riferimento. C’è tanta omofobia e non accettazione e difficoltà di auto accettazione alle spalle di tutte, o quasi, queste persone senza fissa dimora. È un evento sfortunato alla fine quello che ti trascina in strada come la perdita del lavoro, una malattia, l’anzianità che sopraggiunge o una dipendenza sottovalutata. Ma questi uomini e donne non hanno punti di riferimento anche e soprattutto a causa della loro omosessualità”.
“Finire per strada può essere un percorso lungo o brevissimo”, aggiunge Carlo Francesco Salmaso, antropologo e ricercatore che ha raccolto molte delle interviste. “A caratterizzare le storie, oltre ai disagi materiali, c’è la rottura delle relazioni con amici, familiari, compagni. Difficilmente queste persone parlano esplicitamente di omofobia, o dicono di non sentirsi accettate”. Le difficoltà di accettazione si nascondono dietro frasi solo allusive. Un ragazzo per esempio dice: “Ho litigato con mio padre, mio padre era stronzo, a casa mia non funzionavo, per questo sono finito sulla strada”. Una donna, ex-studentessa fuori sede aggiunge: “Non facevo esami, mi hanno dato l’aut aut per tornare al sud. Non me la sono proprio sentita di tornare: sarei stata disposta a qualunque cosa, ed eccomi sulla strada”. Uno degli operatori rammenta: “Nei colloqui cerco di capire l’evento traumatico di rottura con il contesto d’origine. Vado a fondo con le domande, ma a volte non sembra essere accaduto nulla di specifico, il malessere è più diffuso… All’omosessualità non avevo pensato, ma è un’opzione possibile in molti casi”.
Alle difficoltà con la famiglia si aggiunge l’omofobia interiorizzata. “In particolar modo tra i migranti i desideri verso persone del proprio sesso vengono intesi come sbagliati, invertiti, vergognosi. I migranti sarebbero circa la metà dei senza dimora e su queste problematiche c’è una doppia cappa di invisibilità” dice Salmaso. “C’è anche chi”, argomenta l’antropologo, “arriva ad affermare la propria identità in modo tutt’altro che schivo. All’inizio di un’intervista, per esempio, un ragazzo ha preso il registratore e ha urlato forte: “Sono omosessuale!”. Eravamo a Bologna sotto le due torri, seduti tranquilli, tra la gente. È stato un segnale forte. Come se quelle parole dovessero possedere un’energia incredibile per riuscire a uscire, a essere pronunciate, e ascoltate”.
Altre volte l’homeless esprime un’identità serena. È il caso di un sessantenne, con una vasta cultura, a cui piace molto discutere con gli universitari e che si racconta come ancora legato ai moti studenteschi del ’77. È senzatetto da dopo l’uscita dal carcere per “fatti politici” e pur affermando senza esitazioni che la strada è dura, vede bene anche i problemi di chi ne sta fuori: “Sono 30 anni che vivo così. Penso che per un omosessuale sia più facile vivere in strada che essere integrato nel sistema. In strada non devi rendere conto di te a nessuno”.
La quotidianità di questi uomini e donne alterna ore di “nulla da fare” a momenti di ricerca costante di “dove mangiare”, “dove dormire”, “come coprirsi”. C’è spazio anche per la gioia: “ho trovato un pasto”, “l’assistente sociale dice che tra un anno avrò la pensione”, o, ancora “al centro organizzano una festa per ferragosto”. Dolore, solitudine, insieme a depressione sono comunque pene quotidiane per molti di loro. Si arriva fino alla paura: “Il grande freddo uccide”, spiegano alzando le spalle nel tentativo di esorcizzare il mostro. Si lavoricchia pure, si chiede l’elemosina e la prostituzione “può essere una risorsa, ma raramente lo è. Sono più gli stranieri a prostituirsi” conferma Rebecca Zini.
I senza casa, poi, amano: anche nell’estrema marginalità i bisogni di relazioni affettive rimangono intatti. Un operatore rileva che “si avverte un’atmosfera densamente erotizzata nell’aria del dormitorio, e nelle stanze dove i maschi sono separati dalle donne”: “Si notano innamoramenti, scenate di gelosia, proposte sessuali fisiche ed esplicite. Da poco si è conclusa la vicenda di un progetto di fuga d’amore in Marocco di una coppia gay, che ci ha obbligato a confrontarci sull’appoggiare economicamente o meno questa scelta che voleva dire vanificare gran parte degli sforzi di reinserimento sociale fatti fino ad allora. Avuti i biglietti, i due innamorati non sono saliti sull’aereo”.
Nonostante le deprivazioni le relazioni affettive sono complesse e talvolta molto durature. È il caso di una coppia di senza tetto da oltre vent’anni anni intercettati dalla ricerca perché avevano occupato uno stabile apparentemente abbandonato e che, dopo la denuncia per violazione di domicilio, si sono rivolti a “Avvocato di strada”, un’associazione che si occupa di questioni legali per i senza dimora. Costantino Giordano, che ha seguito il caso racconta: “Sono una bella coppia, uno è del nord, l’altro del sud. Non bevono, non si drogano, hanno una cultura media e sono molto affettuosi tra di loro, e molto visibili e conosciuti nella comunità dei senza dimora bolognesi”. Ma non sono i soli. “Recentemente – aggiunge Giordano – ha creato scompiglio in un dormitorio un ragazzo omosessuale molto visibile, simpatico ed esplicito, circondato da una vera e propria comunità di senza dimora gay. La sua espansività ha creato qualche difficoltà alla struttura per una rissa con un gruppo di nordafricani. Molti però sono stati solidali con il ragazzo e il suo gruppo”.
I dormitori restano comunque luoghi difficili per gli omosessuali visibili: “Nella sostanza non sono affatto diversi da quello che c’è fuori. Si possono ritrovare omofobia, insulti, dinamiche aggressive… I problemi di relazione con l’altro, la diversità di cui è portatore, sono gli stessi, forse amplificati dalla convivenza forzata e dalla sensazione che si abbia poco da perdere. La carenza di interventi che riguardino questa sfera della persona, però, è impressionante. Per questo è utile porre il problema agli operatori di solidarietà, sia cattolici che laici, e cercare insieme strategie di azione”, spiega Carlo Salmaso.
E tra gli scopi di “Approdi Negati” c’era proprio quello di pensare alle strategie per sostenere questi uomini e donne a uscire dai margini. “Sta tutto nel cercare di ricostruire una rete di relazioni. La povertà non è solo materiale. C’è un vuoto relazionale e solitudine che si deve riconoscere e colmare in fretta. Anche perché nel tempo la vita in strada logora con depressioni e problemi psichiatrici uniti spesso all’abuso di alcol, anche perché è un modo per riscaldarsi” dichiara Rebecca Zini. “Più di un operatore”, conclude Salmaso, “ha fatto notare che, anche se avessimo la bacchetta magica e potessimo dare loro casa e lavoro, non basterebbe. Certo è necessario uscire dalla povertà materiale, ma non serve a nulla se non si aiutano le persone a recuperare il senso del proprio esserci nel mondo, le relazioni positive con gli altri e con se stessi… anche affermando la bellezza del proprio essere lesbiche, gay, bisessuali o trans”.