Parigi o cara

Se molti omosessuali europei nella prima metà del Novecento venivano in Italia in cerca di ragazzi disponibili e di sesso facile, erano tanti gli intellettuali che andavano a Parigi, la città che sul piano culturale e letterario era indubbiamente la capitale gay d’Europa. “A Parigi tutto era possibile”, scrive Giovanni Comisso di ritorno da una visita nella capitale francese. E Filippo De Pisis, parigino di adozione per una decina d’anni, quando torna in Italia è assalito dai suoi amici che vogliono sapere tutto della realtà francese dove sembra che l’omosessualità non abbia più segreti. E lui, narciso come è, non si fa pregare. “Una sera”, racconta ancora Comisso, “ci trovammo con lo scrittore Carlo Emilio Gadda e con il filologo Gianfranco Contini, andammo in una birreria, De Pisis era in piena forma, come soleva dire e non lo turbava alcun mal di testa, a un certo momento Carlo Emilio Gadda pregò timidamente, che egli, reduce da Parigi, volesse essere compiacente di riassumere i vari tipi di irregolari dell’amore. Allora De Pisis, dopo aver vuotato d’un fiato tutto il bicchiere di birra, cominciò a dire: ‘In primo luogo vi sono le tapettes, che corrispondono a quelli che a Napoli chiamano le femminelle, poi gli gigolos che indifferentemente vanno con le vecchie signore, quanto coi monsieurs, purché paghino, poi vi sono le tantes…’. A questo punto Gadda intervenne chiamandolo Maestro per chiedergli se permetteva di prendere appunti, e De Pisis annuì, con un sorriso trattenuto. ‘E queste tantes si possono estendere da una certa età matura fino ai vecchi monsieurs, poi vi sono i passionali, i platonici, e da ultimo, gli occasionali che vi cascano, così, per ragioni favorevoli di clima o di ambiente, come il collegio, la prigione, la caserma o il naufragio in un’isola senza donne’. Il filologo Contini che lo aveva ascoltato attentissimo proruppe a gridare: ‘Ma lei è come il Santo Padre quando pontifica nel sinedrio’. De Pisis rideva con una compiacenza straordinaria e tutti noi gli si fece coro con vera ebbrezza”.
Le varie tipologie enumerate da De Pisis, così inedite per Gadda, non lo erano ovviamente in Francia, dove erano invece soggetti di numerosi romanzi nella letteratura dell’epoca, compresa la coppia di due uomini scampati a un naufragio che finiscono col vivere come due coniugi su un’isola deserta, argomento di un romanzo del 1928, Un homme et un autre di Henry Deberly.
A tutta questa letteratura della prima metà del Novecento che rompeva un tabù e faceva dell’omosessualità argomento di numerosi testi letterari, ha dedicato un importante saggio Patrick Dubuis (Émergence de l’homosexualité dans la littérature francaise d’André Gide à Jean Genet, L’Harmattan, Paris 2011, pp. 320, euro 30,00), studioso di letteratura e direttore della rivista Inverses: Littératures, Arts & Homosexualités.
Dubuis offre una lettura attenta delle opere dei maggiori scrittori dell’epoca, da Proust a Gide, da Cocteau a Julien Green, da Jouhandeau a Mauriac, da Yourcenar a Peyrefitte, da Montherlant a Genet a Maurice Sachs, ma anche di numerosi scrittori noti nel loro tempo e poi dimenticati fino a tanta letteratura popolare, anche di autori eterosessuali, per fare innanzitutto un inventario delle forme di omosessualità rappresentate nei primi decenni del Novecento: le amicizie particolari tra adolescenti, la pederastia sul modello antico, l’omosessuale come “donna mancata”, fino al tipo, più marginale, dell’omosessuale non effeminato, protagonista di tanta letteratura successiva agli anni Settanta ma già presente in alcuni personaggi di Marguerite Yourcenar o di René Crevel.
Successivamente Dubuis analizza il rapporto degli scrittori con i discorsi medici e psicologici indagando i loro tentativi di individuare le cause dell’omosessualità per cogliere l’acquiescenza di molti scrittori alle teorie “scientifiche” del tempo, ma anche la rappresentazione più personale e originale di alcuni di loro che, più che spiegarne le cause, l’omosessualità la vivevano e la rappresentavano. Anche nel rapporto del personaggio omosessuale col mondo, con la religione, con la famiglia, con la società, si evidenziano percorsi diversi che pur nelle contraddizioni di un’epoca che all’omosessuale assegnava un solo destino possibile, di solitudine e di negazione di sé, hanno creato una tradizione che è stata un modello indiscutibile di tanta letteratura europea.
“Il titolo del mio saggio”, spiega Patrick Dubuis, “è un po’ lungo, ma illustra bene il suo contenuto, il ruolo determinante che hanno avuto i primi decenni del ventesimo secolo nel far emergere il tema dell’omosessualità in letteratura. Per la prima volta nella loro storia, gli omosessuali rivendicavano una parola che, fino ad allora, era stata confiscata dalle istanze dominanti e dagli scrittori eterosessuali che trattavano questo tema con atteggiamenti derisori. Accanto agli autori omosessuali mi è sembrato interessante anche trattare gli scrittori eterosessuali che hanno affrontato questo tema così scabroso nella loro epoca. Anche loro hanno contribuito a fissare una certa immagine dell’omosessualità da cui non ci siamo ancora totalmente affrancati. L’immagine che essi danno dell’omosessualità è, nella maggior parte dei casi, un’immagine negativa, ma molto istruttiva di un punto di vista socio-letterario. I loro discorsi, spesso grotteschi, non riflettono meno lo stato di una società e io preferisco i loro discorsi al silenzio perché credo che niente sia peggiore del silenzio”.
“In Francia”, mi dice ancora Dubuis, “ci sono numerose opere monografiche su singoli scrittori, ma non esisteva ancora uno studio generale sulla letteratura omosessuale di quegli anni e io spero che un giovane, anche non specialista, che voglia avvicinarsi alla cultura gay, possa farlo più facilmente attraverso questo mio saggio. Bisogna insomma ricordare alle giovani generazioni, che molto spesso hanno la tendenza a semplificare, che la cultura letteraria omosessuale non comincia con gli scrittori degli anni Settanta, come (in Francia) Dominique Fernandez, Yves Navarre, Jean-Louis Bory o Guy Hocquenghem. Non voglio certo sminuire i meriti di questi scrittori, ma mi pare giusto considerare che se essi hanno potuto avere quel livello di libertà nella loro espressione è perché la loro letteratura si inscriveva già in una consolidata tradizione francese”.
A Patrick Dubuis che conosce bene anche la letteratura italiana chiedo ancora quali sono, a suo avviso, le differenze più interessanti tra la letteratura italiana e la letteratura francese del Novecento. “Ciò che salta agli occhi”, afferma, “è il fatto che in Italia gli scrittori che si dichiarano omosessuali e che osano scrivere di omosessualità non appaiono che negli anni del secondo dopoguerra. Penso, in particolare, a Pier Paolo Pasolini, Alberto Arbasino, ma anche a Dario Bellezza o a Giuseppe Patroni Griffi. Non voglio dire che prima non c’è stato niente, ma lo stato della società non favoriva lo sviluppo di un discorso esplicito. D’altronde, mi domando anche se l’eccezionale sviluppo della letteratura francese all’inizio del ventesimo secolo non abbia nuociuto alle letterature vicine, italiana ma anche spagnola, più invischiate nella cultura cattolica. Gli intellettuali italiani dell’epoca avevano lo sguardo rivolto a ciò che avveniva in Francia. Parigi era allora la capitale di tutte le avanguardie e i lettori colti non avevano bisogno di aspettare la traduzione in italiano delle opere francesi perché conoscevano benissimo il francese. Questo ha permesso in qualche modo una forma di diffusione di una cultura omosessuale. Un esempio può essere proprio Filippo De Pisis che è venuto a vivere in Francia per più di dieci anni, per ragioni artistiche, ma anche per aspetti legati alla sua vita privata. Io credo che proprio a Parigi egli abbia imparato a vivere la sua omosessualità senza sensi di colpa”.
“Bisogna ancora interrogarsi, conclude Dubuis, sulla percezione dell’omosessualità in Italia e in Francia per comprendere i modi diversi in cui è rappresentata nella letteratura. E a questo proposito ci scontriamo con un paradosso interessante: tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento, i francesi omosessuali consideravano l’Italia come un paese molto più libero del loro, dove essi potevano vivere la loro omosessualità molto più liberamente. Il barone Fersen, per fare un esempio, si è rifugiato a Capri dopo un grande scandalo in Francia e in Italia egli ha vissuto anni felici con il suo compagno Nino. Una cosa è certa: l’omosessualità non si viveva allo stesso modo da una parte e dall’altra delle Alpi. Ci si può domandare, e il dibattito resta aperto, se questa realtà non abbia contribuito a rendere meno urgente in Italia una presa di parola come quella di André Gide in Francia. È un po’ il fenomeno che si osserva, oggi, nei paesi arabi dove l’omosessualità si vive nella quotidianità e in tutte le forme, ma la letteratura non ne dà conto e non la rappresenta se non in alcuni autori della diaspora. E quando uno scrittore osa affrontare questo soggetto in qualche suo romanzo, si espone a virulente critiche non solo religiose, ma anche politiche”.