L’amore a Bucarest

Bucarest 1992. In un liceo della città un gruppo di studenti sta provando la messa in scena teatrale di un testo tratto da Dichiarazione d’amore, un film culto del 1985 che secondo molti critici anticipava la rivoluzione del 1989 e la caduta di Ceausescu. Ad assistere alle prove c’è anche Nicu, uno studente della facoltà di giornalismo che deve scrivere un articolo per la rivista universitaria a cui collabora. Appena entrato nella palestra del liceo e ha guardato i giovani attori, è stato colpito dal ragazzo che interpreta il ruolo del protagonista, il diciassettenne Gabriel: due occhi verdi, “così belli da sembrare finti: due pietre preziose premute a forza in una maschera di gesso”.
Comincià cosi Quei giorni a Bucarest di Stefan B. Rusu (Playground, Roma 2010, pp.154, euro 11,00), un romanzo ambientato in Romania ma scritto in italiano da un autore romeno che da anni vive nel nostro paese. “Per pubblicarlo”, afferma Stefan, “mi ha molto aiutato l’editor Angelo Bresciani, soprattutto per lo stile e per l’individuazione di certe parole”.
I due giovani protagonisti scoprono presto di amarsi, ma debbono fare i conti con le difficoltà di vivere una storia d’amore gay nei primi anni Novanta in Romania dove la legge proibisce di essere omosessuali e dove al terrore di essere frocio si aggiunge un terrore ancora maggiore, quello di essere scoperti. Eppure Nicu questo terrore un po’ lo ha superato, e forse perché si è sentito protetto dal denaro, dall’eleganza e dall’aria sicura dello straniero ricco, vive già una storia con Vittorio, un italiano che lavora a Bucarest per conto di una delle prime aziende venete che ha scelto di investire nella Romania postcomunista. La sua relazione è però complicata dalla differenza di classe: Vittorio con il suo completo Armani ha l’aspetto dell’attore di un telefilm americano e la sua casa sembra “una profumeria per ricchi”, mentre Nicu ha ancora l’impressione di “puzzare di povertà”, “delle file per il pane, della carne tritata, dell’acqua calda a giorni alterni, delle scarpe aggiustate con lo spago”.
Gabriel sembra avere meno problemi, forte dell’incoscienza della sua giovane età, ma deve fare i conti con l’omofobia della società e della famiglia. Suo padre è un intellettuale, noto architetto, professore universitario tra i più stimati a Bucarest, ma nemmeno lui fa eccezione malgrado le sue idee politiche progressiste, perché in Romania scrive il narratore, “l’odio per i froci è come il tifo per la nazionale di calcio, come la bandiera, unisce tutti”.
All’autore del romanzo, che come abbiamo accennato ora vive in Italia, chiedo il perché di un’omofobia così forte. “La mia storia”, risponde Stefan B. Rusu, “è ambientata nei primi anni Novanta, perché sono quelli che ho conosciuto meglio prima di venire in Italia. Ho cercato di presentare un’immagine della Bucarest di quegli anni, a volte insistendo sui dettagli che sottolineano la decadenza materiale della città, le sue chiusure sociali, ma anche le speranze e la vivacità dei giovani. Oggi Bucarest è cambiata molto, ma l’omofobia è rimasta quasi inalterata. Le leggi che condannavano l’omosessualità non ci sono più, ma l’ostracismo sociale e familiare sono ancora fortissimi. La chiesa ortodossa è molto più chiusa di quella cattolica, anche se può sembrare difficile da credere. La conseguenza è che non esistono luoghi di aggregazione e al pride partecipano di solito non più di duecento-trecento persone, scortate da mille poliziotti per evitare le aggressioni da parte di militanti dell’estrema destra”.
“Negli ultimi tempi”, dice ancora Stefan, “ho pochi contatti con il mondo gay romeno, ma so che esiste un’associazione molto attiva, Accept (http://accept-romania.ro), che lotta per difendere i diritti dei gay, la società romena è però molto maschilista e se la situazione è difficile a Bucarest, figuriamoci nei piccoli centri”. Un’omofobia così acuta c’entra con l’eredità del regime comunista? “Non credo”, spiega Stefan, “che il comunismo abbia contribuito più di tanto a questa chiusura. Si tratta di una questione culturale più ampia. In tutto l’est europeo le libertà individuali non sono tenute in gran conto rispetto all’idea di collettività e di nazione. L’anima della nazione spesso da noi è più forte dell’individuo”.
L’amore dei giovani protagonisti del romanzo sfida però tutti gli ostacoli e procede con sorprendenti colpi di scena per arrivare a un finale che appare più una proiezione utopica da parte di chi ha bisogno di sognare un altro mondo possibile che un verosimile scioglimento dei conflitti. Il romanzo è comunque appassionante e nelle ultime pagine persino commovente. I giovani protagonisti appaiono molto diversi dall’immagine che molti hanno in Italia dei romeni “belli e dannati”, spesso violenti e responsabili di alcuni dei più efferati omicidi di gay degli ultimi anni. “Io non credo”, mi dice ancora l’autore del romanzo, “che oggi i romeni siano più violenti di altri giovani di altre comunità. Penso che si tratti di un cliché veicolato dai media. Certo un atteggiamento di risentimento verso gli italiani pieni di soldi che sono venuti in Romania a comprare qualsiasi cosa forse c’è stato negli anni scorsi, ma sono convinto che oggi non sia più così. Del resto anche il fascino che l’italiano esercitava sui giovani, oggi è sentito molto di meno”.